Una lettera sulla vicenda locale di una gattina che apre il dibattito sui danni di un certo fanatismo animalista
Cari tutti,
vi voglio raccontare questa vicenda per cercare di aprire uno spiraglio di luce in quel mare di tenebra che ritengo essere il disorientamento dell’odierna società, causato dallo scostamento da quelli che sono i normali ritmi della natura.
Viviamo in Canavese, non intendo specificare ulteriormente non per timore di essere identificato, ma perché non vorrei che l’attenzione fosse riposta sui dettagli della vicenda in sé, quanto piuttosto nel messaggio che cerco di tramettere in ciò che mi accingo a scrivere.
Tempo fa è arrivata nella nostra proprietà una gatta. Era malconcia e con una gran fame, tant’è che aveva predato un colombo non per istinto, come spesso fanno i felini domestici per poi abbandonarne miserabilmente la carcassa, ma per spolparlo fino all’osso. Il mio buon padre ha fatto ciò che avrebbe fatto chiunque abbia mai vissuto in campagna: l’ha nutrita e dissetata.
Come è facile immaginare, la gattina ha reso suo il nostro prato ed il portico dove le è stata installata una cuccia, approntata per l’occasione con tutti i crismi.
Gli animali, da noi, non hanno occupato in passato gli spazi domestici e non abbiamo fatto un’eccezione neppure in questo caso. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma credo che l’animale uomo debba avere il proprio rifugio e così debba essere per le altre specie, tutti “a casa propria”. Ciò non toglie che la micina potesse beneficiare di tutti i comfort, dalla coperta riscaldata nella cuccia, alle frequenti strigliature del pelo, alla tolettatura e di ogni altra attenzione si possa offrire ad un animale d’affezione, per utilizzare una definizione legale.
Gli acciacchi non si sono fatti attendere neppure per lei, dal momento che, a detta del veterinario, poteva avere fra i 18 ed i 20 anni. Negli ultimi tempi aveva iniziato a dare evidenti segni di cedimento e malanni.
Il veterinario le aveva prescritto antibiotici e cortisone che le somministravamo con regolarità, null’altro si poteva fare, ci aveva detto, perché era vecchia e si avviava a concludere il suo tempo.
Le volevamo bene.
Un giorno si è allontanata da casa. In un paese le vecchie case contadine sono dotate di un’aia e di terreno, solitamente circondato da una barriera di confine facilmente superabile da parte di un gatto. Da sempre questi si intrufolano o passano per poi sgattaiolare via e tornare dove sanno di trovare cibo, non scrivo dai propri padroni, perché i felini, spiriti liberi per istinto, difficilmente ne hanno.
La nostra gattina capitava raramente che si allontanasse per alcune ore, per poi fare ritorno la mattina all’ora del pasto. Quel giorno non lo fece. Si era allontanata il venerdì sera. L’abbiamo cercata, ma nulla. La domenica veniamo a sapere, da un post pubblicato su facebook, che era stata raccolta da un’associazione “animalista”, a fronte di segnalazione.
Il post era a dir poco struggente. Abbandonata, denutrita, disidratata… veniamo a sapere che era stata affidata ad un ambulatorio veterinario, dove è tutt’ora, sempre che al momento della pubblicazione di questa lettera la gattina sia ancora viva.
Può sembrare triste e crudele metterla in questi termini, ma per me è semplicemente un fatto di cicli naturali: stava morendo. La cultura popolare vuole che i gatti si allontanino in procinto di spirare l’ultimo fiato. C’è del vero in questo, lo fanno seguendo l’istinto, per cercare un posto riparato dove difendersi dai predatori in un momento di debolezza. Lei, probabilmente, si era allontanata semplicemente per trascorrere in pace gli ultimi momenti della propria esistenza.
Non biasimo coloro che l’hanno segnalata e neppure l’associazione che l’ha sottoposta a trattamenti medici, anche se, a detta del nostro veterinario, non sarebbero serviti ad altro che a prorogare di qualche giorno l’inevitabile dipartita. Il mio sdegno è rivolto al sistema di pensiero che ha dominato quest’ultima parte della vicenda.
Mi spiego meglio: la gattina aveva il diritto di morire in un ambiente che conosceva, assecondando i ritmi dettati da madre natura, in un ambiente a lei famigliare, libera e non nell’asettico laboratorio di uno studio veterinario.
I due veterinari non si sono parlati a quanto ne so, pur avendo io trasmesso il contatto del nostro. Probabilmente il dottore degli animali che l’ha presa in carico ha visto nella gattina solo un paziente e non un essere vivente con la propria dignità, perché un animale che volge il proprio sguardo al tramonto dovrebbe essere facilmente riconoscibile da parte di un occhio esperto. Un vecchio di paese avrebbe, senza possedere molteplici attestati e con buona saggezza, senza dubbio decretato la sentenza con semplice diretta verità: “sta morendo, il gomitolo della sua vita è stato svolto del tutto”.
La gatta è divenuta ostaggio dell’ambulatorio.
Mi è stato chiesto se avrei forse preferito che la gattina fosse morta per poi essere divorata da una volpe. Questa domanda conferma quanto ho prima accennato e cioè che non conosciamo più cosa voglia dire vivere secondo natura. La mia risposta è stata sì, lo avrei preferito. Sarebbe stato il ciclo vitale che compie il proprio corso, senza che gli uomini, che stanno distruggendo l’ambiente naturale, ma che si affannano per proteggerne alcune parti a seconda della moda di turno, ci mettessero ancora una volta lo zampino, forzandolo e violandolo.
I benpensanti non saranno sicuramente d’accordo, ma non ci si rende conto, a mio avviso, che gli animali da compagnia vengono considerati null’altro che oggetti, alla stregua di peluche. Vengono antropomorfizzati, non nell’aspetto, è chiaro, ma nel modo in cui ci si approccia ad essi. La loro natura viene modellata a piacimento dell’uomo che ne fa dei feticci, dei totem, idealizzandoli senza rendersi conto, oppure credo in molti casi consapevolmente, che lo si fa per distrarsi dalla banalità del quotidiano. Secondo me si agisce in questo modo per frustrazione, o per ovviare a delusioni avute dalla vita, oppure per l’irrefrenabile desiderio di riversare su un essere vivente le attenzioni che non si possono donare ad un essere umano, o ancora per la semplice vanità ed egoismo di credersi migliori se impegnati in un’opera che si è convinti essere lodevole. Non credo sia giusto usare esseri viventi come sfogo per le nostre sofferenze o ambizioni.
MI è stato insegnato che la vita è sacra in ogni sua forma. Mio nonno era un vero animalista senza avere coscienza di esserlo, anzi era molto di più, perché rispettava la natura e le sue creature per quello che sono: altri esseri che popolano il pianeta sul quale viviamo.
Ho sempre vissuto in campagna e non mi sono mai scandalizzato nel vedere uccidere una gallina o scuoiare un coniglio. L’ipocrisia è di chi “ama gli animali”, salvo poi non curarsi, ad esempio, di quanto inquinamento procura il suv che utilizza ogni giorno, salvo poi cibarsi di carne rossa in abbondanza, costosissima da produrre in termini ambientali, oppure, semplicemente, tornando alla nostra vicenda, salvo credere che accanirsi terapeuticamente su di un gatto per fagli vivere qualche giorno in più in un ambulatorio sia la cosa giusta da fare. Il “giusto” degli uomini, ai miei occhi, non coincide con il “giusto” dalla natura.
Ho scritto queste righe non per una sorta di rivalsa, quanto piuttosto per un ultimo atto di amore vero verso quella piccola gattina che abbiamo accudito e che è stata vittima della visione “sintetica” della vita che pervade la società umana nella quale viviamo.
Ciao piccolina.
Una persona semplice