Con lo striscione d’apertura “Generazione dopo generazione fino alla Liberazione” la manifestazione di sabato scorso, 18 novembre, a Biella con la quale «un pezzo di società biellese chiede l’immediata fine dell’azione militare israeliana nella striscia di Gaza e della caccia al palestinese in Cisgiordania»
Io non ero mai scesa in strada nella mia città, per una causa in cui credo. Non avevo mai marciato davanti a queste montagne, a ritmo di slogan e sventolando bandiere. E non avevo mai visto un biellese che cerca di ripetere in arabo qualcosa che non capisce, e che chiede alla vicina velata come si fa a pronunciare la “kha”. Magari è successo altre volte, e sono io che non l’avevo mai visto. Oppure non era successo mai, e la Terra Santa fa ancora i miracoli.
Allo stadio all’inizio c’è più polizia che striscioni: municipale, locale, carabinieri e digos, tutti schierati, trasmittenti alla mano e telefonini spiegati, a fotografare e filmare il pericolo che viene da chi dice NO a un genocidio.
Un’amica mi dice che c’è poca gente, che manca chi doveva esserci, e io non capisco, e lei dice che è perché sono stata lontana per tanto, e che sta parlando della “sinistra”, perché la mia amica ci crede ancora, nella “sinistra”. Una sinistra che di cognome fa Schlein e difende Israele perché “manca di profondità strategica”, invece di condannarlo perché manca di umanità.
Ma a me non importa, né della sinistra, né della Schlein, né di Israele, che per me è uno stato posticcio, farlocco, fatto di una toponomastica storpia, riempito di armi e di soldi da gente che forse in Medio Oriente non c’è manco mai stata, e che di suo non ha nemmeno i piatti tipici. A me importa solo delle persone che mi stanno attorno in questo momento, persone comuni, senza partito o con un partito ma che per oggi l’hanno lasciato alle urne, e volesse il cielo che ci rimanesse per sempre.
Mi dicono che c’è poca gente, ma a me sembriamo milioni.
Il comunicato che apre il corteo ha già qualche giorno, i dati dei morti non sono aggiornati, ma la sostanza non cambia: “un pezzo di società biellese chiede l’immediata fine dell’azione militare israeliana nella striscia di Gaza e della caccia al palestinese in Cisgiordania”, perché “quella in corso non è una guerra contro Hamas (…) ma una sistematica pulizia etnica che ha radici profonde ed è iniziata con la cacciata dei palestinesi dalle loro case e terre 75 anni fa”.
Mi piace questo comunicato, perché segnala l’ipocrisia di “chi oggi in Europa parla di due popoli e due stati”, una soluzione ignorante che il cosiddetto stato di Israele non ha mai davvero voluto, come dimostrano gli insediamenti illegali del West Bank, “ormai sui 150, oltre a 128 avamposti, per un totale di circa 700mila coloni ampiamente rappresentati nella Knesset israeliana e che recentemente hanno ricevuto armi dal governo”. Lo scrive Fareed Taamallah, giornalista di Middle East Eye, in un articolo dell’11 novembre dove denuncia anche che “i coloni sono soldati in abiti civili, alcuni dei quali hanno formato milizie per uccidere i palestinesi con il pretesto di mantenere la sicurezza”. E io gli credo, perché li ho visti coi miei occhi, ed è difficile non credere a quel che si vede, anche se mi appare ormai chiaro che un sacco di gente ci riesce benissimo.
Anche lui parla di “ipocrisia dell’Occidente”, e prova quasi imbarazzo a voler riferire dei Territori mentre tutta l’attenzione è puntata su Gaza. Ma qui non è una gara a chi soffre di più, e la Cisgiordania occupata, coi suoi 3 milioni di palestinesi che dal 1967 vivono sotto occupazione militare israeliana, non ha niente da invidiare a nessuno.
Dall’inizio dell’anno al 7 ottobre, le forze israeliane avevano ucciso circa 200 palestinesi nel West Bank; a partire dal 7 ottobre le uccisioni sono già arrivate a 170. Inoltre, continua, “le forze israeliane hanno invaso le città di Jenin, Tulkarm, Nablus e Gerico, distruggendo le infrastrutture con il pretesto di scovare ricercati” e hanno limitato la libertà di movimento palestinese, con 700 check point e posti di blocco in tutta la Cisgiordania occupata.
Anche gli arresti di palestinesi sono aumentati esponenzialmente, e se prima del 7 ottobre i detenuti arrivavano a circa 5mila, tra cui molti bambini, a partire da quella data, cioè in circa un mese e mezzo, sono già stati oltre duemila. Per non parlare di quel che succede online, dove grazie alla collusione delle aziende di social media i post pro-Palestina vengono puntualmente rimossi, o bloccati, o segnalati perché privi di contesto.
È disgustato questo giornalista, disgustato “dall’ipocrita retorica occidentale sui civili e sui diritti umani e dai funzionari che denunciano a gran voce l’uccisione di israeliani, sostenendo il diritto a ‘difendersi’ ma sembrano ampiamente indifferenti alle migliaia di palestinesi innocenti uccisi dalle forze israeliane a Gaza e nella Cisgiordania occupata”.
Ed è disgustato anche quel “pezzo di società biellese” che oggi ha marciato in periferia perché la prefettura ha negato il centro, e che se l’è fatto andar bene lo stesso, anche se dire periferia a Biella è come dire Occhieppo e anche se il centro in realtà è nostro, e non della prefettura.
Ma fa niente, perché oggi sullo sfondo del Piazzo sventolavano bandiere palestinesi e quella periferia s’è riempita di cori a invocare la Liberazione e, pochi o tanti che fossimo, comunque tutti abbiamo “perso la voce per chi ha perso la vita”.
Dice Taamallah che “le continue uccisioni e gli sfollamenti di palestinesi non porteranno la pace nella regione” e che “l’unico modo per risolvere il conflitto è una soluzione politica che ponga fine all’occupazione e ritenga i criminali di guerra responsabili”.
Dovremmo dargli retta, e mentre gridiamo per il cessate il fuoco gridare anche per quella soluzione politica che è davvero l’unica che può far finire la guerra. In ogni caso, dovremmo continuare a gridare. Io continuerò a gridare, perché fuori è terribile, ma il mio cuore oggi, per un momento, è stato contento.
valentina valle b.