Il buco nero dei Cpr – Un’intervista con Lorenza Della Pepa e Matteo Carbonaro, avvocatə dell’Osservatorio Cpr Torino.

Dopo il corteo nazionale che a inizio luglio ha sfilato per le strade centrali di Torino per dire no ai Cpr, continuiamo a occuparci della questione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, questa volta per indagarne le problematiche sistemiche e giuridiche.
Abbiamo intervistato Lorenza Della Pepa e Matteo Carbonaro, giovani avvocatə dell’Osservatorio Cpr Torino, organizzazione che da anni si occupa di portare l’aiuto legale all’interno e l’informazione all’esterno dell’impenetrabile centro torinese.

Prima di tutto un po’ di contesto. Di cosa parliamo quando diciamo Cpr?

Cpt, Cie, Cpr, le sigle utilizzate per nominare questi centri sono cambiate nel corso degli anni, con l’esplicito obiettivo di creare confusione, ma la loro funzione è sempre rimasta la stessa. Sono posti pensati per trattenere e teoricamente espellere i migranti irregolari.
Nella pratica sono luoghi sostanzialmente non regolati dalla legge: non vi è alcun controllo sovrastrutturale e la libertà personale viene limitata senza alcuna garanzia giuridica. Sono luoghi impenetrabili dove persino gli avvocati hanno difficoltà ad accedere. Solo alcune figure, come politici eletti e garanti dei detenuti, possono organizzare delle visite.
Nella pratica, se si finisce dentro un Cpr si è completamente nelle mani delle forze di sicurezza, che possono agire senza alcun controllo esterno.

Come e perché si finisce in un Cpr?

Intanto bisogna chiarire che quella dei Cpr non è una detenzione penale, come quella del carcere, ma amministrativa. Non potrebbe quindi durare oltre i novanta giorni, anche se poi è possibile allungare questo limite attraverso escamotage burocratici.
Non si finisce nei Cpr per aver commesso un reato, questo è importante sottolinearlo, ma solo ed esclusivamente perché si è immigrati senza documenti. Quello di cui non si parla però, è il fatto che se si proviene da certe Nazioni e si è poveri, non esistono modi per entrare regolarmente in Italia.
Il vero reato commesso dalle persone trattenute nei centri, più che l’immigrazione clandestina, è quello di essere nati nella famiglia e nella parte del mondo sbagliate.
L’assurdità di tutto ciò è che nella pratica i Cpr non svolgono nemmeno la funzione per la quale sono costruiti, poiché i numeri dei rimpatri sono bassissimi.

Come non funzionano? Se questo è vero, perchè l’attuale governo vuole non solo tenerli ma addirittura implementarli?

Il rimpatrio non è un meccanismo automatico. Intanto per espellere qualcuno sono necessari l’identificazione e diversi passaggi burocratici con i consolati dei Paesi di provenienza.
Il tentativo di ottenere informazioni dalle ambasciate viene solitamente tentato solo una volta dalle forze di sicurezza del Cpr, che spesso si “dimenticano” di riprovare una seconda.
Per rimpatriare qualcuno sono poi necessari accordi con le Nazioni di riferimento. Accordi che non esistono, perché questi Stati chiedono giustamente qualcosa in cambio all’Italia, per esempio vie legali di immigrazione da quel paese.
Questo crea il cortocircuito che si tenta di risolvere con i Cpr, creando volutamente condizioni di vita tremende proprio per convincere i detenuti a farsi identificare e rimpatriare. Raccontata così verrebbe da pensare che questi centri siano una prerogativa della destra, che ovviamente li usa e li implementa, ma è la sinistra che li ha creati e utilizzati per prima.
La vera, atroce funzione del Cpr è cancellare dalla società persone considerate indesiderabili, delle quali non si sa cosa fare e che si preferisce far sparire, perché rendono palesi le incongruenze di un sistema ingiusto.

Ci direste qualcosa sulle condizioni di vita all’interno dei Cpr?

Le persone sono sostanzialmente tenute come animali in gabbia: le condizioni igieniche sono terribili, la qualità del cibo scadente e nelle celle non c’è nulla, spesso nemmeno posti per sedersi che non siano la brandina e il pavimento.
Inoltre, trattandosi di detenzione amministrativa, non vi sarebbe in teoria alcun motivo per vietare l’uso del cellulare, ma nel Cpr di Torino non esiste la possibilità di detenerlo, come esplicitato dalle circolari interne. Ai pochi ai quali è stato concesso è stata spaccata la telecamera. Il punto è evitare che si sappia cosa succede lì dentro, che trapelino informazioni sulle condizioni di vita dei centri. L’unico telefono è fisso e a gettoni, quindi impossibile accedervi senza soldi, ed è necessario ricordare i numeri a memoria. Insomma è quasi impossibile avere contatti con l’esterno, persino con un avvocato.
Le condizioni psicologiche sono terribili, e il personale sia di polizia che sanitario questa cosa la sa perfettamente: i reclusi vengono privati di tutti gli oggetti che potrebbero portare a suicidi, autolesionismo o atti anticonservativi, compresi prodotti per la pulizia.
Non a caso l’abuso di psicofarmaci è pesantemente incentivato. Una recente inchiesta pubblicata su Altraeconomia ha dimostrato questo fenomeno incrociando i dati di Asl e Cpr sull’uso di psicofarmaci. Si parla di una media di 17 pastiglie di rivotril, benzodiazepina con potenti effetti sedativi, per una singola persona nell’arco di due settimane.

Nell’estate del 2021 Moussa Balde, ragazzo guineiano vittima di un violento pestaggio di matrice razzista e ricoverato a Ventimiglia, fu trovato senza documenti e trasferito al Cpr di Torino. Si sarebbe suicidato di lì a poche settimane dopo in una cella d’isolamento, nell’indifferenza delle persone che lo avevano in custodia. Da allora è cambiato qualcosa?

Il suicidio di Moussa Balde ha creato fortunatamente una minima ondata di indignazione e da allora l’attenzione almeno mediatica si è un po’ alzata. Il punto più importante è fare informazione sui Cpr, perché si sappia come stanno realmente le cose.
Noi come Osservatorio Cpr Torino cerchiamo di farlo, per questo abbiamo anche dato vita a un evento di divulgazione annuale, il Festival Tuttə Fuori, del quale l’ultima edizione si è svolta il 25 giugno nella sede dell’associazione culturale Comala, con la quale collaboriamo.
È necessario che il faro dell’attenzione pubblica rimanga puntato sul Cpr, non solo perché le condizioni migliorino, ma anche perché le cose peggiori accadono sempre quando nessuno guarda.

Lorenzo Zaccagnini