Il presidio è pronto, le bandiere della Pace sono tutte al loro posto, l’articolo 11 della nostra Costituzione scritto a caratteri cubitali su uno striscione completa la scenografia. L’altoparlante diffonde canzoni in cui la musica gareggia con il testo nel creare e diffondere emozioni profonde. La giornata è bella, ma crediamo anche noi, come il musicista Mark Knopfler, che in ogni guerra “now the sun’s gone to hell, il sole sia andato all’ inferno”
I riferimenti a Palestina ed Israele sono dentro di noi, non esposti o gridati, perché fatichiamo a controllarli, e potrebbero uscire in un modo a cui non avevamo mai pensato prima (ricordate la vignetta di Cipputi?: mi vengono in mente delle idee che non condivido). Siamo sul confine fra il politicamente e l’ umanamente corretto, ma la paura di scivolare sul versante e farsi del male cadendo giù blocca la razionalità di cui ci sarebbe bisogno più che mai. E’ una sensazione diffusa, quella che inaspettatamente si riscontra nella maggioranza dei partecipanti con cui si parla : una specie di autocensura personale che in modo collettivo impedisce di dire quello che si pensa di Hamas e del Governo Israeliano. Senza contare l’ angoscia che procura il termine guerra, usato impropriamente, perché non si tratta di uno Stato contro un altro, ma di uno Stato contro un Popolo.
E’ indispensabile che la memoria del genocidio degli Ebrei non esca dalla Storia e dal cuore di quanti si oppongono alla barbarie, ma non può sfuggire che il senso di colpa del mondo per quanto fatto loro patire si ponga come uno specchio deformante quando si tratta di dare un giudizio sulla inosservanza di Israele delle risoluzioni dell’ Onu, o sull’ esproprio e la colonizzazione forzata delle terre Palestinesi operata su spinta della estrema destra religiosa.
Fino a quando non saremo in grado di operare questa separazione fra giudizio storico e senso di colpa, noi che ci troviamo a partecipare a questi presidii continueremo a sentirci intimamente divisi, con il rischio di essere additati come simpatizzanti dei terroristi, indipendentemente da chi sia considerato tale. E continueremo a soffrire per questa intollerabile assunto, mai dichiarato per ipocrisia, che il popolo israeliano e quello palestinese non sono sullo stesso piano, e tanto meno le sofferenze sono eguali. Chi conosce la situazione di Gaza sa che si parla di una prigione a cielo aperto, o meglio, di una trappola, e questo è inoppugnabile, perché in quattrocento chilometri quadrati vivono due milioni e duecentomila persone, con una densità abitativa di 5000 persone per km2 quando ad esempio in Italia la densità abitativa è di circa 190. Con i valichi controllati dall’ Esercito Israeliano, che fa passare quanto serve alla sopravvivenza, inclusi acqua, medicine e carburante a proprio giudizio. Una situazione claustrofobica, un’ esistenza che pone i Gazawi fra gli ultimi della terra certamente, in grande compagnia purtroppo, privi di solidarietà anche da parte di popoli che per religione, tradizioni, cultura dovrebbero essere loro vicini.
La protagonista principale di questa situazione in cui ci troviamo oggi è paradossalmente un’ assenza, quella dell’ umanità. Che però non è scomparsa del tutto. Yocheved Lifshitz, 85 anni, una delle centinaia di ostaggi Israeliani, appena liberata da Hamas, di fronte alle telecamere di mezzo mondo si gira verso il suo carceriere, gli tende la mano, ricambiata, e gli augura Shalom, Pace. Rivedendo il suo gesto, al contempo fortemente simbolico ed altrettanto efficacemente concreto, il pensiero va ad Edith Bruck, Ebrea sopravvissuta a sei campi di concentramento compreso Auschwitz. Recentemente, dall’alto dei suoi 92 anni ha affermato che alla liberazione del campo si sentiva privata di tutti i sentimenti, compreso l’ odio, e proprio questa mancanza di odio le permise di regalare il suo pezzo di pane ad uno dei carcerieri nazisti.
In compenso, la disumanità furoreggia alla grande. La ritroviamo nei gesti imperdonabili di Hamas, che sparano sui giovani in festa al rave vicino al kibbutz Re’im, ma la troviamo anche, nelle affermazioni del Ministro della Difesa Israeliano Yoav Gallant che dice: “Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”. Dimenticandosi di separare Hamas dalla popolazione civile, ed applicando la legge del taglione che è un disvalore non più accettabile, dopo che siamo usciti dalle caverne (o crediamo di esserne usciti). Ora il Primo Ministro Benjamin “Bibi” Netanyahu ci provoca con l’ affermazione che a Gaza “Stiamo combattendo per l’ umanità”. Sicuramente non in mio nome, verrebbe da dire, se meritasse una risposta. Dalla miscela di più odii è scientificamente impossibile che possa sorgere una convivenza civile, è provato invece che possa dare luogo a vendette, prepotenze, apartheid, fare la gioia dei parolai da talk-show e soprattutto rimpinguare le casse (detassate) dei produttori di armi.
Per chiudere questa inconcludente riflessione, chi la legge capirà come questo presidio sia stato sofferto e dirompente per chi lo racconta. Sofferto perché non è riuscito ad unire altri soggetti impegnati su questi temi, con angolazioni diverse certamente, che nella società ci sono. Dirompente, specialmente in chi, da anni che non si contano ormai più, ha manifestato contro le guerre, contro l’antisemitismo, o pro causa Palestinese, ed ha la conferma dell’ inutilità del proprio impegno. Che comunque (non sarebbe nemmeno il caso di riaffermarlo) continuerà. Ma da domani.
Un presidio sentimentalmente difficile nel ricordo di chi per la causa palestinese ha perso la vita, come Vittorio “Vik” Arrigoni, che in una corrispondenza da Gaza inviata al giornale il manifesto il 7 gennaio 2009 raccontava:
“Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola” mi dice Jamal, chirurgo all’ Ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere appoggia per terra dinanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. “Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l‘ ultimo miagolìo soffocato.” Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua:” Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’ opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…..”; il medico continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate ai miei piedi.”Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l’ ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quali sono state le reazioni del mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che Palestinesi, saremmo stati più tutelati.”
Il giorno precedente, aveva chiuso un altro articolo in cui raccontava della Nakba, la catastrofe Palestinese, con l’ esodo di 800 mila arabi dalla Palestina a seguito del conflitto arabo-israeliano del 1948-49 con queste parole:” Per i lutti che abbiamo vissuto, prima ancora che Italiani, Spagnoli, Inglesi, Australiani, in questo momento siamo tutti Palestinesi. Se solo per un minuto al giorno lo fossimo tutti, come molti siamo stati Ebrei durante l’Olocausto, credo che tutto questo massacro ci verrebbe risparmiato. Restiamo umani.”
Ce la faremo mai a ritornare umani?
Luciano Guala