Animali selvatici, il film di Mungiu al Cineclub del Boaro

Un gran film e un finale a punto interrogativo

Il film del romeno Cristian Mungiu, per la sua rugosa bellezza e per l’insieme illuminante e lineare della trama, non avrebbe forse bisogno di quel finale enigmatico con cui congeda lo spettatore.
La vicenda esprime la drammaticità del presente, mette a fuoco le paure e i conflitti dei personaggi, molto ben rappresentati nella loro fisicità di gente comune e ci proietta nelle atmosfere invernali di un imprecisato villaggio della Transilvania. Il protagonista, Matthias, emigrato in Germania, lavora in una ditta di macelleria, dove, tra l’altro, spicca le teste degli ovini accumulandole, come scarti, in casse di plastica. Le teste così dissezionate, e l’inevitabile desensibilizzazione umana che ne consegue, preludono all’idea di chi possano essere, tra uomini e  bestie, gli effettivi animali selvatici di cui titola il film. Matthias si licenzia bruscamente dopo aver subito un insulto razzista e fa ritorno al suo villaggio romeno, dove sono rimaste, non in trepidante attesa, la moglie, il figlio Rudi, il padre Otto e l’amante Csilla, ora direttrice in un panificio.
Il ritorno a casa di Matthias presenta difficoltà di reinserimento compatibili con quelle affrontate nel processo di emigrazione, difficoltà in lui appesantite da una visione maschilista della realtà e dalla convinzione dogmatica per cui chiunque provi pietà per il prossimo sia candidato a morire per primo. In quest’ottica, l’uomo cerca di ricondurre, a una più virile educazione, il piccolo Rudi, che ha smesso di parlare dopo un misterioso avvistamento nel bosco, svincolandolo dalle attenzioni troppo protettive della madre.
Il film allinea la tensione dei rapporti interpersonali al grigiore del panorama, il bosco solitario e inquieto per la presenza, forse solo temuta, degli animali insidiosi, l’atmosfera del Natale imminente che, a parte il nevischio sfarfallante nel cielo, non attenua la nudità desolante del villaggio. Fanno da contraltare leggero le luci calde all’interno delle abitazioni, le finestre in tinta colorata della casa di Csilla, che nel riconcedersi all’amante vorrebbe anche essere da lui amata. Nella vita di Matthias sono parte integrante le armi, necessarie a difendersi dalle presenze oscure del bosco, umane o animali che siano, e anche dagli orsi che popolano ancora queste terre e che sono oggetto di censimento da parte di un francese lì giunto allo scopo.
Il vero conflitto, in questo microcosmo popolato da etnie differenti, scoppia quando il panificio assume tre immigrati cingalesi la cui presenza, nonostante il corretto comportamento e la capacità lavorativa dimostrati, scatena negli abitanti un’onda di ingiustificato razzismo. E’ un vero pezzo di bravura quell’unica inquadratura cinematografica lunga un quarto d’ora, che il regista adotta per riprendere l’assemblea pubblica, giocando sulla messa a fuoco dei volti ad ogni singolo intervento dei partecipanti.
Questa scena mette in rilievo le frustrazioni, il disagio e i pregiudizi che accompagnano le fasi dell’integrazione dove l’inclusione del diverso viene osteggiata anche se non crea, di fatto, alcun problema. Deluse entrambe dall’indolenza di Matthias in questo frangente, tanto più irritante in quanto lui stesso è stato un emigrato, la moglie e l’amante Csilla decidono di allontanarsi da lui. Matthias perde anche il padre Otto, che mette fine ai suoi giorni di malato incurabile a cui gli umani selvatici, approfittando della sua fragilità, non hanno trascurato di rubare le pecore.
In questo quadro il protagonista, escluso tra gli esclusi, travolto dalla gelosia che già gli ha fatto vedere, negli stessi cingalesi, gli amanti potenziali di Csilla, decide, fucile alla mano, di far luce nell’ombra fitta dei suoi sospetti, ora diretti principalmente verso il francese che censisce gli orsi. E qui, come una tenda caduta di getto, si affaccia il finale di impronta surreale che qualche recensore ha magnificato nella sua incomprensibilità perché, a suo dire, cosi avviene solo nei film ritenuti migliori.
Sarà, ma il non dare spiegazioni, manco si trattasse di un film che scandaglia l’assoluto, si presta fatalmente alle libere interpretazioni tanto più persistenti quanto più raccomandate come inutili.
Gli orsi fasulli, che danzano di fronte al protagonista, per me rappresentano i tarli della gelosia suscitati dal francese, nuovo e attendibile compagno di Csilla, tarli che Matthia cerca di scongiurare, non colpendo l’amante infedele come il regista induce di primo acchito a pensare, ma uno degli orsi immaginari che, stramazzando al suolo, rappresenta un primo passo in avanti di Matthias verso la libertà dal potere corrosivo dell’invidia e della possessività.

Pierangelo Scala