Un altro aspetto preoccupante del mondo digitale è il suo crescente impatto ambientale. Intervento di Norberto Patrignani.
Come insegnano gli studi in scienza, tecnologia e società, la scienza non è neutra, «incorpora i valori della società del tempo» come dicevano Cini e altri nel 1976 in L’ape e l’architetto. Quali valori incorpora l’attuale era delle Big Tech digitali che vede miliardi di persone connesse con gigantechi centri di elaborazione? Come ha spiegato dalle pagine de il manifesto il prof. De Martin, le conseguenze sociali e politiche di questa centralizzazione in pochissime mani sono preoccupanti: «Stati che non controllino, anche fisicamente, queste infrastrutture sono, per dirla in maniera delicata, a sovranità limitata […]. quale prezzo pagheranno i Paesi europei per aver ceduto agli Usa buona parte del sistema nervoso delle loro società, delle loro economie e dei loro apparati statali?» (De Martin, 2025).
Ma il mondo digitale ha un altro aspetto preoccupante: il suo crescente impatto ambientale. Per essere memorizzati, elaborati e trasmessi i bit richiedono quantità crescenti di materia ed energia. Ogni persona sul pianeta ha un budget massimo annuale di emissioni (carbon budget) e di materia (mineral and metal budget) da rispettare per non superare i famosi 1,5 gradi di riscaldamento globale. Un recente studio su Nature Communications mostra che le attività online delle persone (videoconferenze, streaming audio e video, social, web, etc.) con i loro dispositivi (PC, smartphone, TV, laptop, tablet, etc.) consumano il 41% del carbon budget e il 55% del mineral and metal budget annuale pro capite (Istrate, 2024). Da una parte ci sono i consumi relativi ai comportamenti delle persone connesse, dall’altra c’è la crescita esponenziale dei consumi energetici dei centri di elaborazione delle Big Tech: le stime dicono che i consumi elettrici dei loro datacenter bruciano buona parte dell’energia elettrica consumata dal digitale: 333 miliardi di KWh nel 2022. Le proiezioni sono: 536 miliardi di KWh nel 2025, 681 nel 2026 e 1065 nel 2030 (Ramachandran, 2024); come confronto, nel 2022 l’Italia ha consumato 316 miliardi di KWh (fonte Terna). In termini numerici, secondo alcune proiezioni, nel 2024 vi erano 5709 data center nel mondo, nel 2030 diventeranno 8378 (Wong, 2024). Un recente rapporto di Goldman Sachs prevede che i datacenter aumenteranno i consumi elettrici dagli attuali 3% a circa 8% dell’elettricità degli Stati Uniti nel 2030 (Goldman Sachs, 28 aprile 2024).
Ma a cosa sono dovuti questa crescita dei datacenter e questi aumenti esponenziali dei consumi di energia elettrica? In buona parte servono per alimentare le cosiddette “intelligenze artificiali” (IA: es. Chatgpt di Microsoft-OpenAI, Gemini di Google, Claude di Anthropic etc.) anche se, per evitare antropomorfizzazioni, sarebbe meglio chiamarle “macchine calibrate con (tanti) dati” oppure, con una delle metafore più potenti, “estrusori di stringhe di testo probabili” (Tafani, 2024). Queste macchine devono “generare” testi per rispondere alle domande di miliardi di persone connesse. Secondo Goldman Sachs, rispetto alle tradizionali ricerche su Web, le “risposte” a queste “domande” richiedono una quantità di energia dieci volte superiore (Goldmans Sachs, 14 maggio 2024). Oppure devono “generare” immagini in risposta alle “descrizioni” fornite dalle persone: secondo una recente ricerca della Carnegie Mellon University generare una immagine con una macchina IA consuma l’energia pari a metà ricarica di uno smartphone (Luccioni e Strobell, 2024).
La calibrazione dei miliardi di parametri (i nodi e le connessioni delle cosiddette “reti neurali”, o dei cosiddetti modelli) di queste macchine richiede la potenza di calcolo di centinaia di datacenter. Durante questa calibrazione queste macchine devono “ingerire” quantità enormi di dati, equivalenti a centinaia di milioni di libri e l’energia e la potenza di calcolo richiesta durante la calibrazione ormai raddoppia ogni tre mesi (OpenAI, 2018). Questa enorme concentrazione di potenza delle Big Tech è connessa con una oscena concentrazione di ricchezza in poche mani e con una organica collaborazione con l’industria militare: negli scenari di guerra attuali il digitale si sta affermando come “tecnologia di dominio” (Nexa, 2024).
Come intende rispondere l’industria delle Big Tech a questi aumenti esponenziali dei loro consumi energetici dovuti alle macchine IA? Ripristino di vecchie centrali nucleari dismesse, costruzione di nuovi reattori modulari, investimenti in startup dedicate alla fusione nucleare. Tutte le Big Tech oltre a investire pesantemente per costruire nuovi datacenter (cosiddetti “iperscalabili” per la loro capacità di elaborare gigantesche quantità di dati) stanno investendo nel settore dell’energia nucleare. In una catena di annunci recenti Microsoft ha dichiarato di voler riavviare la centrale nucleare di Three Miles Island che nel 1979 fu teatro del più grave incidente della storia negli USA, di finanziare la sua impresa nucleare TerraPower e di investire in Helion, una startup dedicata alla fusione. Google ha annunciato di investire in Kairos Power che sviluppa SMR (small modular reactors). Oracle sta progettando un nuovo datacenter dedicato all’IA alimentato direttamente da quattro reattori SMR). Tutto questo ignorando tutti gli aspetti negativi del nucleare noti da tanti anni: costi proibitivi, tempi di costruzione, incidenti, rischi di contaminazione da materiali radioattivi, rischi di proliferazione delle armi nucleari, smaltimento dei rifiuti radioattivi (Tartaglia, 2022). Per quanto riguarda gli SMR, si prevedono in funzione nel 2030-2035 ma ad oggi solo tre impianti di questo tipo sono stati costruiti nel mondo. Sulla fusione nucleare, molti fisici prevedono che prima di arrivare ad un uso commerciale della fusione saranno necessari ancora decenni (Stover, 2024).
Ma lo sviluppo senza freni delle macchine IA non può attendere decenni, ha bisogno di energia subito, non c’è tempo per nuove soluzioni: si ritorna alle fonti fossili! Questa urgenza spinge le compagnie elettriche a incrementare il contributo delle centrali a gas (Halper e Donovan, 2024). Infatti uno degli studi di Goldman Sachs, una delle più grandi banche di affari del mondo, consiglia gli investimenti più convenienti, non parla di impianti nucleari o di futuristiche centrali a fusione: «le nostre proiezioni sono 60% gas e 40% rinnovabili» (Goldman Sachs, 28 aprile 2024). Le Big Tech sono focalizzate sulle prestazioni (bigger-is-better) che richiedono modelli sempre più grandi, calibrate con quantità di dati e potenze di calcolo crescenti. Questa rincorsa tra “intelligenze artificiali” sempre più energivore e aumenti dell’energia elettrica necessaria per alimentarle, rischia di essere l’ennesima follia dominatrice di homo sapiens nei confronti del pianeta.
Come può rispondere la società civile di fronte a questa visione del mondo? Innanzitutto evitare di passare alle nuove generazioni l’ineluttabilità di questo scenario (inclusa l’ineluttabilità della guerra); questa direzione delle tecnologie digitali non è un destino, vi sono interessi ormai evidenti che hanno portato a potere (e ricchezza) centralizzato in poche mani. Diventa sempre più urgente riequilibrare lo strapotere guadagnato dalle Big Tech negli ultimi 30 anni (da quando è stato delegato al mercato e alle tecnologie il potere di controllo della società). Allora diventa urgente l’intervento normativo ed educativo nei confronti del digitale, sia per il suo impatto sociale (sostenibilità democratica), sia per gli aspetti di sostenibilità ecologica (energia e risorse). Diventa urgente contribuire alla diffusione delle “tecnologie conviviali” (tecnologie aperte, controllate da comunità, basate su architetture decentrate, interoperabili e partecipate) come suggeriva Illich nel 1973, contrapposte alle “tecnologie del dominio” (chiuse, controllate da pochissimi, centralizzate e non interoperabili). A livello personale diventa invece urgente iniziare una riflessione sull’abuso e la dipendenza dalle tecnologie digitali per arrivare a una “sobrietà digitale”.
L’Occidente non propone più sogni credibili alle generazioni future, domina l’ipocrisia: «si è sgretolato un meta-discorso fondato sul desiderio collettivo per un “futuro più giusto”» (Barbera, 2024). Bisogna tornare a pensare con audacia futuri possibili, costruire e comunicare una narrazione diversa, una diversa visione del mondo, una diversa Weltanschauung. A questo proposito vale la pena ricordare il discorso “I libri non sono merci” di Ursula Le Guin (1929-2018), una scrittrice che di utopie se ne intendeva, quando le hanno consegnato il National Book Awards 2014: «L’Intelligenza Artificiale ci intrappola nel passato […]. Dobbiamo essere in grado di immaginare la libertà, […] viviamo nel capitalismo, il suo potere sembra inevitabile – ma del resto lo stesso sembrava per il diritto divino dei re. Qualsiasi potere umano può essere contrastato e cambiato dagli esseri umani. La resistenza e il cambiamento spesso iniziano nell’arte. Molto spesso nella nostra arte, l’arte delle parole» (Le Guin, 2014).
Norberto Patrignani
Riferimenti
– Barbera, F., La giustizia fiscale resta una “passione muta”, il manifesto, 16 gennaio 2024
– De Martin, J.C., La resa europea, il manifesto, 8 gennaio 2025
– Goldman Sachs, 14 maggio 2024, https://www.goldmansachs.com/insights/articles/AI-poised-to-drive-160-increase-in-power-demand