Cento persone nella sala polivalente della Casa Circondariale di Ivrea per assistere ad una emozionante lettura scenica
In città c’è un quartiere chiamato Casa Circondariale. Quel quartiere ha molti abitanti ma noi non li vediamo e spesso non li vogliamo vedere. Per fortuna (nostra e loro) ci sono persone che lavorano per metterci in comunicazione e per far sì che ogni tanto possa capitare di incontrarci e stare insieme. Così, alle dieci di un sabato di avvento, la fila fuori dalle mura di quel grande edificio rosso con le sbarre alle finestre, lungo la via che esce dalla città, è alquanto lunga. Siamo in tanti, non credevamo di essere così tanti. Ci guardiamo, ci contiamo e siamo contenti di trovarci insieme, a passare una mattinata insolita. Sappiamo perché siamo lì, ma non sappiamo esattamente cosa aspettarci.
Un laboratorio di lettura si è trasformato in un’esperienza teatrale per i detenuti della “Sezione Ristrutturata. Collaboratori di giustizia” della Casa Circondariale di Ivrea e ha coinvolto la cittadinanza, grazie al lavoro dell’Associazione Assistenti Volontari Penitenziari Tino Beiletti, invitata ad assistere allo spettacolo. Il libro che ha dato vita al percorso si intitola Fine pena ora ed è stato scritto dal giudice Elvio Fassone, protagonista di uno scambio epistolare durato ben 26 anni con un detenuto che lui stesso ha fatto condannare all’ergastolo per reati di stampo mafioso. Una storia già di per sé davvero incredibile, resa ancora più sorprendente se, per la lettura scenica, a rivestire i panni dei due protagonisti sono due detenuti che scontano una pena senza data di fine per gli stessi reati di cui si è reso colpevole l’ergastolano del libro.
È strano dover passare cancelli, lasciare borse e cellulari e trovarsi seduti in una grande sala nel cuore di tanta precauzione. Siamo chiusi, anche noi, per qualche ora. Non è uno spettacolo qualsiasi. Anche questo lo sappiamo. Percepiamo l’elettricità dell’emozione nell’aria, quella sensazione simile a quando sta arrivando il temporale e tutto si ferma per un attimo, prima che cominci il gran frastuono. Siamo in quel momento: stiamo aspettando che l’onda arrivi. L’attesa è quel tempo strano in cui ognuno prepara e si prepara alla reazione, quel momento in cui le antenne sono dritte e i sensi al massimo dell’allerta. Poi, iniziano le rituali presentazioni e i saluti istituzionali, i grazie per essere qui, i grazie a chi tra poco si metterà in gioco. E noi siamo pronti.
Lo spettacolo a cui stiamo per assistere, ci spiega Simonetta Valenti che ne è ideatrice e artefice, intervallerà l’interpretazione di brani dello scambio epistolare tra il giudice Fassone e Salvatore l’ergastolano con riflessioni e pensieri dei detenuti, scaturiti dalla lettura del libro ed entrati a pieno titolo nella drammaturgia di questo originale canovaccio che fonde insieme prosa, poesia e note autobiografiche, tessute da piccoli intervalli musicali a cura di Nicola Giglio. Si inizia, infatti, con una poesia, composta da Gaetano, l’attore che interpreta Salvatore, che spiega nella sua bella lingua siciliana, in pochi e incisivi versi, la condizione del carcerato, contribuendo ad instradare noi pubblico verso il giusto stato d’animo. L’attesa ha lasciato il posto alla propedeutica: ora possiamo davvero partire per il nostro viaggio nella tempesta.
Ed è una vera tempesta emotiva quella che stiamo per attraversare, un percorso nelle emozioni di chi legge che risuona nel profondo dei sensi allertati di chi ascolta. Mentre il giudice Fassone (Nik) e Salvatore (Gaetano) si svelano l’un l’altro a suon di lettere, Angelo, Ettore, Luigi, Pietro, Nik e Gaetano scoprono le loro carte più intime e segrete e ci permettono di guardare dal buco della serratura della loro anima di uomini rei redenti. Nessuno è uguale a come era il giorno prima, dice Luigi, neanche loro, le cui azioni sembrano avere fermato il tempo per sempre. Difficile rendere a parole quello che noi cento seduti abbiamo vissuto, così come è difficile immaginare quanto è stato duro scriverle, quelle parole. Parole che raccontano un altro mondo e un altro modo di stare al mondo. Parole che, alla fine, diventano un interminabile ringraziamento e che a fatica riescono a fermarsi, dopo aver trovato finalmente una strada libera su cui correre a perdifiato. E poi sono mani che si stringono, complimenti e sguardi dritti e lucidi. Lo sapevamo, ma ora ne siamo certi: non siamo gli stessi di quelli che appena due ore prima hanno varcato la soglia, né lo saremo domani, così come non lo sono loro: “loro perché la speranza li tiene vivi e noi perché crediamo in quel che facciamo, ma entrambi non molliamo”, come hanno scritto sul retro della cartolina di presentazione, messa sulle sedie della sala.
Tornando a casa, ad emozione più tiepida, penso al titolo dello spettacolo, nato dai profondissimi versi di Pietro: “della mia anima ne farò un’isola” e cerco di organizzare i pensieri. Mi chiedo che cosa ho apprezzato di più. Mi accorgo, allora, che la lettura delle testimonianze personali è sempre stata asciutta, diretta, senza eccessive vischiosità emotive, nonostante il peso che trasportava, esattamente al contrario del lavoro attoriale, chiamato a riempire e a colorare di veridicità situazioni verosimili ma inventate. A cosa ho assistito, dunque, mi sono chiesta? Ad uno spettacolo teatrale o a qualcos’altro? Pirandello avrebbe detto: “alla vita”! Ho assistito alla vita. E quindi al teatro nella sua massima forma!
Lisa Gino