Interrotto dopo solo un giorno l’esperimento “presenze dimezzate”, si ritorna a chiudersi tutti in casa
Un giorno.
Tanto è durato il tempo scuola dimezzato.
Che era una schifezza, però assai meglio, immensamente meglio del lacero scampolo di scuola che è la Didattica a Distanza.
Se non altro i ragazzi collegati dialogavano con i compagni presenti, era uno scambio che li teneva belli desti, perché ieri loro erano lì in classe e domani ci sarebbero stati di nuovo.
Come dire un’assenza, sì, ma temporanea, un vuoto, certo, ma provvisorio: uno stare con un piede a casa e un altro a scuola.
Poi metà classe c’era, era presente e viva e in qualche modo la sua voce arrivava agli altri.
Era spezzata, appunto, ma somigliava alla scuola e alla scuola rimandava. Restava, poi, il presidio, l’occupazione di un luogo da parte degli insegnanti che implicitamente tenevano duro, ce la facevano, non mollavano.
Ora no. Non si poteva tentare nemmeno una, due settimane, impossibile aspettare e complicato differenziare: molto più semplice a casa, dai 14 anni in su. Unica eccezione: disabili e ragazzi affetti da DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento), che possono, volendo, entrare in classe. Ma loro non vogliono asserragliarsi: sono disabili, mica scemi.
I pullman sono vuoti, finalmente. Decrepiti, inquinanti, malridotti com’erano e come saranno a lungo.
Lo Zac! è desolato, la mattina, niente più gruppi di studenti che – seppure distanziati – ripassano in vista dell’interrogazione, compulsano i cellulari, ridacchiano tra loro, giocano a carte (davvero!), leggono perfino; niente più “giorno prof, ha visto il mio nuovo taglio di capelli?”; niente più “ciao ragazzi, a dopo”.
Strade libere, spazi abbandonati, bar deserti. Tutti a casa in pantofole, scarmigliati, intorpiditi, a “far lezione” dal divano o dal letto ancora tiepido. Lì a perdere occasioni, esperienze, conoscenze, luci che non saranno più.
Eppure non si è fatto tutto, e si doveva provare, ad ogni costo.
I ragazzi non ce lo perdoneranno.
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