Riceviamo da Franco Giorgio, esponente della sinistra eporediese, oggi aderente al percorso di Unione Popolare, alcune riflessioni sul dibattito sul Reddito di Cittadinanza e le misure del Governo Meloni.
Io credo che il dibattito sul Reddito di Cittadinanza (RdC) vada affrontato in parallelo ad una seria riflessione sul mondo del lavoro odierno, pur essendo nello stesso tempo convinto che siano tematiche quella della Povertà e del mondo del Lavoro che andrebbero affrontate con atti legislativi separati.
In Italia, lo sfruttamento sul lavoro è una caratteristica ormai cronica del sistema e sono convinto che una discussione sul RdC debba passare attraverso o parallelamente alla questione del Salario minimo, insomma i due strumenti sono complementari. Uno è una misura di welfare di sostegno alla povertà (forse da riformare ma non certo da annullare). L’altra è una norma che se applicata porterebbe dei benefici notevoli ai salari bassi. Sono due norme necessarie e complementari. Da questo punto di vista l’anomalia è l’Italia: si tratta di provvedimenti già adottati da quasi tutti i Paesi europei. E da nessuna parte sono stati rilevati problemi al mercato del lavoro.
La questione è che in Italia lo sfruttamento sul lavoro è una caratteristica cronica del sistema. Pertanto, una misura di contrasto alla povertà di 500/600 euro al mese fa paura perché viene vista come un’indebita concorrenza da parte dello Stato. Non servono le statistiche dell’Inps a dimostrare che gran parte dei percettori del reddito sono indisponibili al lavoro, il punto è un altro. I datori di lavoro hanno il timore che stipendi molto bassi (senza contare il lavoro gratuito) possano essere rifiutati perché troppo vicini alla soglia del reddito di cittadinanza. A quel punto è meglio non lavorare. La soluzione allora è semplice, bisogna alzare i salari e migliorare le condizioni di lavoro. I datori di lavoro sono disponibili a farlo?
Ci pare che finora la misura di contrasto alla povertà abbia prodotto degli effetti redistributivi non trascurabili. Se negli anni scorsi non ci fosse stata, oggi affronteremmo una catastrofe sociale. Tuttavia, ci sono diverse storture che sono state segnalate anche dalla Commissione di valutazione sul Reddito di cittadinanza.
Per esempio, il requisito di 10 anni di residenza per gli stranieri è una chiara discriminazione. Un altro elemento controverso sono le soglie Isee che in molte aree del Paese escludono una buona parte dei poveri.
Il problema è che il reddito di cittadinanza è stato concepito come una misura selettiva e fortemente familista, segnata da una logica patriarcale. Inoltre l’erogazione è subordinata a un percorso di inserimento nel mercato del lavoro. E la legge prevede anche un regime sanzionatorio fino all’esclusione per coloro che rifiutano due lavori “congrui”.
Io sono invece convinto che il RdC debba essere solo una misura redistributiva di contrasto alla povertà, superando ogni riferimento alle condizionalità e allargando notevolmente la platea dei beneficiari. Le politiche attive del lavoro devono andare su un binario separato e passare per un investimento notevole in risorse strumentali, organizzative e professionali nei centri per l’impiego e nelle attività di orientamento e riqualificazione possibilmente pubblici.
C’è poi il tema di un salario minimo legale che deve andare a pari passo con una riforma del RdC. Del resto, il contesto salariale italiano è disastroso, gli stipendi non crescono da trent’anni. Caso unico in Europa. Secondo alcune ricerche recenti, un terzo dei lavoratori è povero. Una condizione che riguarda in particolare donne, giovani, meridionali e migranti. Il problema è che negli ultimi trent’anni l’occupazione è cresciuta quasi esclusivamente in settori come quello dei servizi turistici o di assistenza e cura alla persona. Questa tendenza è, a sua volta, collegata a una eccessiva concentrazione dell’occupazione nelle imprese di piccola dimensione, dove maggiore è il contenimento salariale. Basti guardare alla provenienza della violenta retorica degli imprenditori che si lamentano di non riuscire a trovare personale a cui offrire stipendi vergognosi. La verità è che in questi comparti la retribuzione non è sufficiente per sottrarsi alla spirale della povertà. Si tratta di un problema urgente che bisogna affrontare immediatamente.
Ritengo che Unione Popolare debba avanzare una proposta precisa in questo senso e creare ambiti di discussione larghi, animare insieme ad altre forze a partire dal M5S e altri, processi di convergenza e di lotta.
E’ doveroso, però, mettere in chiaro alcuni paletti. Primo, è necessario partire con un salario minimo legale, valido erga omnes e non confinato a pochi settori. Un salario minimo che funzioni da pavimento universale per la contrattazione collettiva di settore, che dal mio punto di vista ne uscirebbe solo rafforzata. Anzi avrebbe la funzione essenziale di superare solo verso l’alto il salario minimo legale, laddove i rapporti di forza lo consentano.
Inoltre, dovrebbe essere necessariamente agganciato all’andamento dell’inflazione con “meccanismi automatici”, altrimenti rischia di essere uno strumento poco utile. Un’inflazione a due cifre come quella di questi mesi rischia di annullare gli effetti benefici e di non risolvere il problema dalla povertà lavorativa poiché sposterebbe di nuovo in alto le soglie della povertà.
Inoltre il salario minimo ha senso se calcolato al netto del Tfr, della tredicesima, dunque: penso che la base debba essere parametrata sul Trattamento economico minimo. Questo consentirebbe di innestarsi nel sistema dei contratti, andando a sostituire tutti quei minimi tabellari sotto-soglia che, oltre a riguardare i settori economici più poveri, interessano anche quelli a più alto valore aggiunto, dove per alcuni livelli di inquadramento il salario non è distante dalla soglia di povertà.
Tra di noi però dobbiamo essere chiari, i sindacati confederali e credo di poter dire il PD, più di ogni altra cosa, mi sembrano interessati soprattutto a difendere il monopolio della contrattazione collettiva. Sono sostanzialmente ostili al salario minimo legale e si limitano a proporre l’estensione del valore legale della contrattazione. Su cui, sia chiaro, non sono contrario. A patto che questo sistema rappresenti solo un aspetto aggiuntivo al salario minimo legale, un’ulteriore garanzia della difesa dei livelli salariali.
Nel contesto italiano, con il peso eccessivo degli occupati nei settori a basso valore aggiunto, il paradosso è stato che un sistema salariale fondato solo sull’autonomia della contrattazione collettiva, in fin dei conti, ha contribuito ad indebolire il sindacato. Lo ha costretto, proprio nei settori più poveri e meno innovativi, a contrattare all’interno dei vincoli stringenti delle risicate compatibilità economiche di settore. Urge una norma salariale valida per tutte le lavoratrici e i lavoratori, anche per favorire un processo di trasformazione della struttura economica e occupazionale.
Dobbiamo preparaci al confronto con i cittadini e alla lotta sia verso Confindustria che vuole continuare a godere della trentennale politica di bassi salari, su cui si è fondata la loro iniziativa economica, composta soprattutto da export manifatturiero a basso valore aggiunto e da servizi elementari, sia verso un Governo che con la manovra non fa altro che far vedere in trasparenza la sua immagine di Destra.
Franco Giorgio