La storia di resistenza della squadra di Rugby argentina “Mar del Plata” messa in scena da Simonetta Valenti
“Siamo nel 1978, in Argentina. Due anni prima un colpo di stato militare ha instaurato la dittatura di José Rafael Videla. Sciolti i partiti politici e il Parlamento, annullate le attività politiche e sindacali, censura, abolizione della libertà di stampa e di espressione: Videla lo chiama “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Gli arresti sono una media di duecento al giorno, per evitare che i presunti dissidenti riescano a parlare con i giornalisti stranieri, mostrando loro la vera Argentina. Solo un’emittente televisiva olandese, riesce a far vedere i volti dell’opposizione al regime: quelli delle madri dei “desaparecidos” che ogni giovedì, dal 30 aprile del 1977 in poi, nonostante le ripetute intimidazioni, si ritrovano nella Plaza de Mayo di Buenos Aires e la percorrono in cerchio agitando silenziosamente dei fazzoletti bianchi.Ma che cosa importa, di tutto questo, al mondo? Cosa gliene fotte agli italiani e ai tedeschi di quello che succede in Argentina, che gliene frega ai russi, eh?”
Queste le prime battute dello spettacolo liberamente tratto dal libro “Mar del Plata” di Claudio Fava e interpretato da Simonetta Valenti, il 19 dicembre, al teatro Giacosa di Ivrea. “Cosa gliene importa al mondo di questa storia?” chiede, lei per prima, ad alta voce, di fronte ad un teatro pieno. Poi la racconta, la storia della squadra di rugby La Plata, finita in mezzo a quell’operazione di pulizia e decimata dalla dittatura. Simonetta dà voce a Teresa, la compagna del capitano della squadra, Raul, l’unico che sopravviverà alla mattanza. E’ una voce di donna, e la storia, cruda e crudele, vista da questa prospettiva diventa ancora più inaccettabile. L’orrore entra nelle case e si mescola con la quotidianità, attraverso le parole di una donna che impasta il pane. Quando si toglie il grembiule sporco di farina, Simonetta diventa la voce narrante della storia, delineando con toni sempre più cupi, quella tragedia.
I sette ragazzi cadono, ad uno ad uno. Colpevoli semplicemente di aver partecipato ad una manifestazione dell’unione degli studenti o del sindacato. E soprattutto di aver continuato a tenere la testa alta, chiedendo ostinatamente, ad ogni partita, un minuto di silenzio per ricordare i compagni uccisi. Quel minuto di silenzio dice tutto, ed è un oltraggio intollerabile per il regime.
Il primo minuto di silenzio è per il Mono, la prima vittima. “Dove l’avranno fatto secco, il Mono? Che cosa si è portato via, negli occhi, quando l’hanno ammazzato? Notte? Cielo, acqua? La faccia di uno di quei bastardi? Non aveva neppure diciotto anni, figli di puttana, diciotto!” grida a voce alta, dal palco. “Pensate basti un minuto? Ne passano due, tre, quattro, cinque. Nessuno ha fretta. Sei, sette, otto minuti, nove. Dieci. Dieci minuti durò, quel silenzio. Poi, tutto riprese vita”.
Ogni volta, prima della partita, si ripete la stessa scena. “E quel minuto si dilatò. Un tempo straripato, un’attesa ostinata finché il silenzio divenne un’altra cosa. Un palpito di vite che cresceva, fino a farsi rumore di scarpe pestate per terra. Uno dei ragazzi aveva cominciato a sbattere le scarpe sull’erba secca del campo come se stesse marciando, i suoi compagni lo avevano imitato e allora anche il pubblico in tribuna si era alzato, tutti in piedi a percuotere le tavole di legno in un trambusto lento, pesante, diecimila persone che marciavano immobili, sfacciate, un gesto di sfida che aveva trasformato quel silenzio in una musica, ogni passo un pensiero proibito, ogni tonfo del piede un ultimo saluto all’Argentina che ormai scannava i propri figli in mezzo alle strade, che masticava la carne della propria carne, che giocava alla morte, e alla vita, nel nome ridicolo della patria” racconta la voce narrante. Ci sono anche le “Voix Qui Dansent”, sul palco, a cantare e dare vita a quella marcia. E il pubblico, insieme a loro, dalla platea e dai palchi.
Le sagome dei ragazzi cadono, una dopo l’altra, e restano gettate a terra, sul palco per tutto lo spettacolo. L’ultima è quella dell’allenatore, Hugo Passarella, che non riesce a portare via quei giovani orgogliosi, con la schiena dritta e le mani grandi, e non salva neppure se stesso.
Alla partita finale, in campo, c’è solo Raul. Gioca con una squadra di ragazzini, che hanno sostituito i suoi compagni. Una partita surreale, fino all’ultimo calcio dato al pallone: “Il ragazzo partì per la rincorsa, ma all’ultimo passo inclinò il corpo come volesse scappare e colpì la palla di lato. Un calcio secco che non cercava i pali. Cercava il cielo e sotto il cielo la tribuna e in tribuna Montonero e Benavides (gli ufficiali mandanti degli omicidi, n.d.r.) che si videro piovere il pallone addosso. L’arbitro fischiò frettolosamente la fine della partita, ma lo stadio, che era rimasto muto fino a qual momento, improvvisamente esplose. Si alzarono tutti in piedi, i visi sfigurati dall’eccitazione, lo sguardo rivolto verso i due figuri in uniforme che si guardavano intorno senza capire cosa stesse accadendo. Qualcuno dal pubblico iniziò a cantare l’inno argentino. In un attimo si unirono tutti in un coro che prese lo stadio intero e anche Benavides si alzò in piedi per cantare l’inno della patria e cantò lo zoppo Montonero, cantarono i giocatori in campo, cantò Raul con i suoi ragazzini, cantarono tutti, vittime e carnefici, per l’ultima volta uniti e ormai definitivamente divisi”.
Anche in teatro, in platea e sui palchi, tutti cantano l’inno argentino, insieme alla protagonista e alle Voix Qui Dansent, mescolate al pubblico. E’un canto collettivo che vuole far risuonare, come allora, lo stesso messaggio: “…anché Benavides capì. Che quelle strofe urlate a squarciagola erano altro. Uno sputo. Per lui, per la sua divisa, per i suoi generali. Lo capì e se ne andò, lesto, frettoloso come un ladro, tronfio come un tacchino e codardo come un assassino. E con lui se ne andò il capitano di corvetta Montonero. E forse pensò, per un attimo a tutti i morti di quelle settimane e gli sembrò che da qualche parte lo stessero aspettando. Che prima o poi li avrebbe ritrovati, spavaldi come li aveva visti giocare e il suo ultimo sguardo fu per Raul. Che al centro del campo cantava e piangeva perché quel giorno l’Argentina era morta. Morti gli amici, morti i suoi vent’anni. Eppure qualcosa restava, viveva, non si era spezzata. Non ancora e forse mai più.”
Un monologo complesso e difficile, intenso ed emozionante, capace di creare partecipazione e di tener viva la storia. Se qualcosa rimane, è grazie anche a chi è riuscito a ridare voce e respiro ai protagonisti di questa vicenda tragicamente vera. Narrata da punti di vista diversi, prospettive incrociate con un punto di fuoco comune, dritto al cuore. Coinvolgendo tutti i presenti con commozione, rabbia e orgoglio nel voler difendere ancora una volta i diritti, la vita, e la libertà di ciascuno.
Grazie alla Città di Ivrea, ad Amnesty International, alla Casa delle Donne, all’ANPI , all’Ivrea Rugby Club, alla Associazione Rosse Torri, a Libera ed Emergency che hanno sostenuto questa inizativa. Grazie all’abile regia di Daniele Ossola e soprattutto alla bravura di Simonetta Valenti, che ha saputo interpretare, da sola, questo lungo monologo, dando risposta alla domanda che lei stessa pone all’inizio dello spettacolo. Raccontare, ad alta voce, ha un senso per tener viva la storia, questa storia, una delle tante storie vere di resistenza vissute da ragazzi con la testa alzata, dai desaparecidos in Argentina come dai partigiani in Italia. “Perché viviamo tempi bui” dice, alla fine dello spettacolo. “Bisogna stare in campana”.
Sara Galetta