Il regista Paolo Quaregna torna a Ivrea per presentare il suo ultimo film: “La seconda patria”
Oggi li chiamano emigranti economici, definizione intesa a distinguerli da altri tipi di emigrazione forzata, come i profughi di guerra o i disperati pronti a rischiare la vita in mare pur di approdare ai lidi del benessere che oggi non sembrano offrire più nulla tranne il miraggio di una fragile speranza. Nella prima metà del secolo scorso l’emigrazione era un fenomeno di massa soprattutto per i popoli come il nostro, che in terra straniera hanno affrontato peripezie di ogni sorta, fronteggiato la miseria e messo radici.
Paolo Quaregna (nella foto), regista noto qui da noi soprattutto per il suo lungometraggio di esordio “Una donna allo specchio”, girato con Stefania Sandrelli sullo sfondo del carnevale di Ivrea, è tornato nella cittadina eporediese, dove ha vissuto e insegnato per una decina di anni, per presentare il suo ultimo lavoro “La seconda patria- Another homeland”, uno spaccato di storia dell’emigrazione italiana nelle gelide terre canadesi.
Giovedì 26 maggio al Politeama, prima della proiezione prevista per le ore 17, con la nostra Lisa Gino che faceva gli onori di casa, il regista si è intrattenuto con il pubblico, dove non mancavano i volti di chi, come il sottoscritto, a quell’avventura eporediese dell’ormai lontano 1984, partecipò con entusiasmo nel ruolo di semplice comparsa. Molta acqua è da allora passata sotto il ponte della Dora e da quegli anni in cui l’idea del cinema si è insediata nella mente del regista, affinandone l’indole di autore nomade capace di realizzare lavori alle estremità del mondo, come le terre dell’Africa sahariana e le regioni del Québec canadese.
I frequenti soggiorni del regista a Montreal e di lì ancora più su verso la Cote-nord fino a Sept-Iles, nelle terre del popolo degli Inuit, gli hanno permesso di realizzare nel 1998 “Dancing North”, un film di fiction che già si interrogava sulle problematiche di integrazione tra culture diverse. Adesso, sulla scia di queste tematiche, dopo tre anni di lavorazione e una programmazione a Ivrea prevista per il 2019 e poi saltata per la pandemia, approda finalmente alla visione eporediese questo “La seconda patria” che ricorda come noi italiani siamo stati migranti a nostra volta, e quindi protagonisti attivi di quel flusso che oggi, pur considerando la diversità delle condizioni e dei tempi, tendiamo a stigmatizzare e a bollare con l’infamante sfilza di nuovi e mai sopiti pregiudizi. La seconda patria, per gli emigranti, è la possibilità di un inserimento pagato con il prezzo della dura fatica, dello sradicamento affettivo, del confronto con la lontananza e con l’ignoto di lingua e costumi. In più, un altro elemento di adattamento difficile è stato, come per gli emigranti in Siberia, il contatto e la convivenza con il freddo siderale del Quebec dove i 5° sotto zero rappresentano un alito primaverile tra le barriere del gelo.
Sul racconto di un emigrato pugliese, Johnny Stea, in pensione dopo sessant’anni di lavoro come operaio tuttofare prima e macellaio dopo, si snoda il racconto e l’intreccio della sua famiglia e di altre storie che si sono costruite appunto una vita sulle strade di una seconda patria, in questo caso lontanissima e tanto diversa da quella nativa, equilibrando distanze tra nostalgie e nuove realtà in cui far crescere nuove generazioni e discendenze. Si calcola che milioni, più di settanta, siano i figli degli emigranti italiani nel mondo. Certo, in quel periodo storico, i paesi ospitanti, in crescita di sviluppo e anche piuttosto spopolati in rapporto all’estensione del territorio, come il Quebec, offrivano opportunità di lavoro anche ai meno specializzati. Chi non aveva risorse, al di fuori della forza del braccio e della volontà di sopravvivenza, poteva sentirsi nominare sul campo “menuisier” da chi, mettendoti semplicemente in mano una sega e un martello ti avviava, seduta stante, alla sperimentazione pratica di quella sconosciuta qualifica. Il film di Quaregna annoda i fili e le storie di nove di questi emigranti nell’estrema periferia del mondo, esistenze che si apparentano nell’acquisizione di nuove identità di vita. La nuova patria, gradualmente, sembra espungere la vecchia, soppiantarne gusti e abitudini di vita. A volte l’identità del passato sembra smarrirsi come se, adottando un nuovo mondo, si perdesse il senso di appartenenza al vecchio. La seconda patria può sembrare ormai sostitutiva dalla prima, ma nonostante tutto le origini non si dimenticano. L’identità rimane quindi a cavallo tra il prima e il dopo mentre il presente non cede né alle ragioni della nostalgia né alla tentazione dell’oblio. Spesso la seconda patria accoglie le spoglie dell’emigrante così come la prima ha visto muovere i suoi primi passi di fanciullo. Il cerchio si chiude nel cimitero sotto le porte di casa, l’unico dove i figli dell’emigrante, qui nati e vissuti, possono venire più facilmente a trovarlo.
Il film unisce, ai racconti individuali dei protagonisti, un sottofondo d’epoca documentato attraverso materiale filmico in bianco e nero, reportage d’annata, secondo la tecnica collaudata del documentario che assembla spezzoni di storia funzionali al racconto. Inoltre, musicalmente, si avvale di una colonna sonora che utilizza l’universale richiamo della musica classica, dove il linguaggio dell’opera lirica simbolicamente supera ogni ostacolo divisivo.
Come è naturale, le storie dell’emigrazione oscillano tra l’epica del coraggio e l’amarezza dei sentimenti feriti. L’emigrante che parte da solo, lasciandosi alle spalle una famiglia già formata, spesso rimuove i vecchi legami nell’attualità della nuova dimensione. Succede che un padre eviti di incontrare la figlia, semini le sue tracce per archiviare il passato, succede che una donna si addolori del fatto che la sua prima patria la lasci partire senza il conforto di una parola di rincrescimento, come se la prima patria fosse una madre insensibile alle sofferenze del distacco.
Mille psicologie tra il vecchio e il nuovo si affacciano, escono e rientrano dal bianco e nero verso i colori della vita. Quaregna infonde al suo cinema quella determinazione da emigrante della pellicola quale è stato tra Ivrea, Torino, Roma, Parigi, l’Africa e il Canada.
Una vita di cinema e per il cinema vissuta con la convinzione che il miglior premio, per chi ha appena finito di girare un film, sia la possibilità di iniziarne subito un altro.
Pierangelo Scala