Le trasformazioni del quartiere e dei suoi abitanti richiedono una maggiore attenzione nell’uso delle risorse pubbliche
Partendo da “Welcome to my house”, evento concluso all’inizio di ottobre, voglio ringraziare infinitamente Paola Risoli, milanese, artista, che ha scelto di venire a vivere a Bellavista, che ha aperto la sua casa studio ai visitatori. La sua presenza in quartiere e i suoi lavori valorizzano il nostro territorio, in qualche modo lo rilanciano all’attenzione di un vasto pubblico.
Senza polemica, come spunto per ulteriori riflessioni, osservo che in questa manifestazione, “Welcome to my house”, importantissima, interessantissima, il Quartiere Bellavista rimane una “cenerentola” tenuta in disparte, citata in tono minore, a fronte di aree arricchite da ville e dimore lussuose. Eppure, il Quartiere Bellavista è incluso nella buffer zone del sito “Ivrea, città industriale del XX secolo” inserito nel 2018 nella World Heritage List dell’UNESCO. La storia racconta di un quartiere operaio, l’ultimo grande insieme di abitazioni sociali costruito dalla Società Olivetti per conto di INA Casa e il Comune di Ivrea. In questo quartiere, satellite della Olivetti (nel senso che ruotava attorno, dipendeva essenzialmente dalla Fabbrica, meno dalla Municipalità), si respirava la filosofia, la visione di comunità di matrice olivettiana, che ha spinto a adattarsi bene all’ambiente.
Possiamo parlare di un ecosistema specifico e prezioso: abitazioni (con particolari architetture) occupate stabilmente e decorosamente da lavoratori della classe inferiore. I gruppi ad alto reddito non erano lì, e non lo sono neanche oggi.
La distribuzione degli abitanti non si sviluppa a caso ma secondo le caratteristiche dell’ambiente, in cui si crea un certo equilibrio stabile (non solo economico, anche socioculturale). Questo equilibrio può rompersi per varie cause (cambio generazionale, occupazionale, impoverimento, perdita valore immobiliare) e, come in un ecosistema, si assiste a una “invasione” di nuove specie che si sostituiscono alle precedenti, dando origine a un reinsediamento che può anche avere valori, mezzi, obiettivi diversi.
Così è successo a Bellavista.
Il Quartiere Bellavista è diventato negli anni più vecchio (gli anziani, i cui figli nella maggior parte dei casi si sono trasferiti, piano piano sono passati a miglior vita) e povero, abitato da residenti sempre più in condizioni di vulnerabilità sociale, anche appartenenti a minoranze etniche, ignari e lontani da quello stile di vita comunitario olivettiano, di cui sopra. In certi angoli del quartiere manca proprio il senso del vivere civile, solidale, del rispetto delle cose e delle persone. Come fare a dialogare con queste “nuovi” residenti, che hanno un’altra visione del mondo, che non “abitano” più le case, le occupano/ci vivono dentro senza dare loro un senso, un significato.
Come spingere i cittadini di Bellavista a rendersi conto del prezioso patrimonio edilizio e culturale che possiede, di cui deve essere orgoglioso ma anche che deve farsene carico, proteggerlo?
Per fortuna, c’è ancora chi ama vivere nelle case “popolari” di Bellavista, case in cui trova significato e valore: la casa di periferia, anche quella “popolare”, diventa – citando Raul Pantaleo – una miniera di senso che ci parla dei sogni di chi la abita, dei suoi desideri.
In questa periferia dell’abitare è attivo un gruppo di volontari che si prendono cura del verde pubblico e si impegnano a migliorare la qualità della vita e la coesione sociale degli abitanti. Un costante rapporto con l’Amministrazione comunale ha portato a risultati positivi e realizzazioni significative: due patti di collaborazione e valorizzazione del territorio sono stati siglati con il Comune di Ivrea, molti sono i progetti conclusi, in corso o in via di definizione, in un’ottica di governance con attori istituzionali e del terzo settore.
Non basta. Perché, se non si innaffia il seme, se non si dà alimentazione e continuità ai progetti e alle collaborazioni, si perde il bagaglio di esperienza accumulata, tutto va in fumo e crea disuguaglianza.
Ed è qui che volevo arrivare: il tema della disuguaglianza, ovvero del rapporto tra CENTRO (ricchezza e potere) E PERIFERIA (povertà e dipendenza).
Prendiamo come analisi di lettura una delle teorie in campo economico sociale per spiegare l’immensa differenza di ricchezza e potere tra paesi industrializzati e terzo mondo. Gli stati centrali, dove si concentrano ricchezza e potere, hanno un ruolo dominante mentre gli stati satelliti sono subordinati, dipendenti. Il centro diventa ricco “a spese” di chi gli ruota attorno, ne deriva: disuguaglianza.
Restringiamo il campo di analisi. Una Periferia che ruota attorno al suo Centro.
La periferia (come un quartiere popolare) può essere subordinata e dipendente dalle risorse socio economiche, politiche, culturali del centro che ha di più e offre maggiori opportunità ai suoi abitanti. In tempi di crisi e recessioni è difficile trovare risorse: se il Centro si impoverisce la Periferia patisce ancora di più, ma se il Centro tiene per sé la maggior parte delle pur scarse ricchezze, fa soffrire la Periferia, creando disuguaglianza.
Dunque, come sapere a chi vanno e in che proporzione i soldi pubblici? C’è una proporzione tra i soldi che vanno al centro e alla periferia? Quanto si spende ad esempio per grandi eventi, grandi opere? Questi di sicuro sono importanti, ben vengano se aiutano la Città a risalire la china ma ci devono essere investimenti altrettanto significativi, non residuali, nei quartieri popolari, periferici.
Non è anacronistico pensare di affrontare e risolvere situazioni di dipendenza e disuguaglianza solo con interventi di carità e beneficenza, di filantropia?
Daniela Teagno