Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla

Gherardo Colombo e il suo libro nell’incontro organizzato allo Zac per Ivreaestate

Per mettere a fuoco questa serata, che si è svolta martedì 12 luglio alle ore 18 su iniziativa di Associazione Rosse Torri, La Fenice, lo Zac e la libreria Mondadori di Ivrea, mi sono occorsi due passaggi. Il primo, ovviamente, è stato quello di partecipare alla serata, il secondo, altrettanto fondamentale, è stato quello di discuterne a posteriori con la dr.ssa Olivia Realis Luc, insegnante e fondatrice della rivista “La Fenice”. Il progetto di questo giornale è stato concepito e realizzato per dare voce ai detenuti del carcere di Ivrea e aprire un punto di confronto tra il mondo all’interno della struttura penitenziaria e quello esterno, ponendosi domande sempre più dirette sulla condizione di vita dei carcerati, su cosa significhi la perdita della libertà, sull’utilità della pena, sulla giustezza della giustizia, sulla tutela dei diritti ecc.
Gherardo Colombo, come il titolo del suo libro perentoriamente indica, non ha dubbi sul fatto che, così come è concepito, il sistema carcerario non funzioni. La sua esperienza di magistrato, giurista e saggista, gli ha conferito una visione assai diversa da quella che registra il pensiero comune. La sua è un’ottica che ribalta completamente il modo di interpretare il rapporto tra i reati commessi e le pene comminate. Il che vuol dire, innanzitutto, non identificare il condannato con la colpa di cui si è macchiato. Se questa cosa avviene, e purtroppo avviene, lo stigma della colpevolezza marchia a vita anche il detenuto che ha pagato il suo debito con la società, spingendolo, in certi casi, all’estrema ratio del suicidio.
Accennando alla sua biografia, Colombo ricorda la sua decisione di abbandonare la professione di magistrato nel 2007, per entrare alla Garzanti come presidente e girare nelle scuole per svolgere un ruolo di formazione proprio su queste tematiche. La vera giustizia, dice, dovrebbe sempre essere riparativa e non ripagare il male con la pena. Si tratta di uscire dallo schema binario “colpa e punizione” per seminare il nascere di una società più equa, in cui vengano gradualmente meno le condizioni che avviano al crimine. Le basi di questo progetto puntano massivamente sull’educazione preventiva, unica strada verso il miglioramento civile. Per essere ancora più chiaro, Colombo usa, come esempio, la storiella dell’idraulico che, prima di cambiare il rubinetto sgocciolante della cucina, dovrebbe controllare quello centrale del condominio onde verificare se il guasto non parta dalla fonte. Curare le cause invece dei sintomi è un principio universale che vale anche in altre settori come quello della salute o della guerra, sempre inquadrata attraverso il metodo manicheo della restituzione del colpo su colpo.
In pratica, siamo ancora tutti in preda agli istinti più grossolani della nostra condizione umana, uomini più desiderosi di vendetta che non di giustizia. “Tutti noi, dice Colombo, non facciamo altro che ergerci a giudici infallibili del prossimo, lapidando i colpevoli come se noi fossimo immuni dalla possibilità di sbagliare. Fondamentalmente si punisce, aggiunge ancora Colombo, non per redimere il reo, ma per ottenere da questi ubbidienza”.
Lo schema diventa: colpa, punizione, ubbidienza, controllo. Del riscatto morale del colpevole, del suo ricupero sociale e dei suoi diritti, non importa nulla a nessuno. L’importante è che, nell’organizzazione sistemica vigente, chi è in galera righi dritto senza infrangere le regole e senza dare fastidio. Questa situazione si combina con la condizione di degrado delle carceri, che non contribuisce certo all’emancipazione e al recupero dei detenuti.
Naturalmente si parla anche di altre società, come quella scandinava, dove le condizioni di vita della popolazione carceraria rappresentano per noi modelli futuristici, dove le carceri sono strutture moderne più similari a dei confortevoli hotel che non a luoghi di detenzione. E qui si potrebbe aprire qualche riflessione sul perché certe società o certe culture o certi processi educativi siano più sviluppati.
Ma come si realizza una società più giusta? Nell’incertezza della risposta, dal momento che individuare ciò che è giusto non è semplice, si dovrebbe cominciare a puntare l’attenzione su ciò che è sbagliato. Quindi per prima cosa ripetiamoci che il colpevole non è la sua colpa; un furto o un crimine non fanno di un uomo un ladro o un criminale in eterno. L’inferno non è luogo di residenza definitiva nemmeno per Hitler. Chi sbaglia, chi cade, è un uomo che fa da specchio a noi stessi e il suo errore, il suo crimine, se elaborati con onestà intellettuale e sincera autocritica, possono addirittura renderlo migliore di tanti integerrimi cittadini sempre pronti a scagliare la prima pietra.
Detto questo, occorre perseguire la conoscenza, l’unica possibilità che ci rende liberi di scegliere. Nella maggior parte dei casi è proprio la mancanza di conoscenza che porta a una scelta sbagliata.
In definitiva, fronteggiare la trasgressione con la punizione non porta a nessun risultato.
Ma allora qual è l’alternativa? Il punto è che bisogna costruire una società che non discrimini in quanto è proprio la discriminazione ad aver operato nei secoli come elemento di disgregazione.
I reati sono spesso figli dell’ingiustizia sociale. Nella maggior parte dei casi, il tossico delinque per procurarsi la droga, l’affamato ruba per procurarsi il pane. L’autore di un reato, a guardarlo bene, è a sua volta una vittima.
Certo, su questa lunghezza d’onda, sulla scia di queste considerazioni, il pubblico presente fa i conti con le sue perplessità. Viviamo in un contesto di insicurezza dove una realtà sanguinante di atrocità ci circonda. Non si può non pensare alla devastazione delle periferie cittadine, con i quartieri emarginati dal dominio della delinquenza. Non si può non pensare alle molteplici forme del male, agli spacciatori che avvelenano i nostri ragazzi agendo indisturbati, ai morti sul lavoro perché si eludono volontariamente le misure di sicurezza, non si può non pensare ai vecchietti raggirati e borseggiati, agli stupri, a certi crimini di fronte ai quali anche un santo perderebbe la pazienza.
E allora che fare, nell’immediato, di fronte all’indignazione della gente, che fare di fronte all’insicurezza di chi si sente sotto minaccia? Come rispondere, nel breve, alle istanze di una giustizia a misura d’uomo evitando che le paure del cittadino comune si esasperino?
Naturalmente, chi si rende responsabile di un reato grave deve essere allontanato dal contesto sociale, ma non dobbiamo scordare che, in ogni caso, la persecuzione del reo non paga. Questo è il concetto cardine del cambiamento possibile, il concetto da incasellare nella memoria.
Le tematiche affrontate sul tema della carcerazione sono molto importanti dunque perché indicano il nostro raggiunto livello di civiltà.
Ritornando a casa, chiedendomi cosa principalmente mi avesse spinto a partecipare a questo incontro, la risposta che mi sono dato era che volevo incontrare qualche carcerato, perché sono attratto da chi sta male e convinto che la maggior parte di loro possano aver intrapreso un cammino per uscire fuori dal tunnel. Chi acquista coscienza dei propri errori è sicuramente una persona di qualità. In fondo io non ho mai imparato nulla dalle mie vittorie, ma solo dalle mie sconfitte e così succede per tutti gli uomini.
Qualche tempo dopo la serata, mi ha telefonato Olivia chiedendomi di scrivere un pezzo ed io ero già di nuovo in preda ai miei dubbi sulla giustizia non punitiva finché lei non ha detto che per cambiare, per migliorarsi umanamente, bisogna compiere un cammino e che per intraprendere il cammino, bisogna compiere il primo passo. E non importa se tutte le altre voci ti urlano contro. Quel primo passo cambia la vita.
E così mi è venuto in mente Jean Valjean, il protagonista dei Miserabili di Victor Hugo, lui che viene compreso nella sua debolezza, lui che dà una sberla e riceve una carezza, lui che è il simbolo di riferimento per tutti quelli che, dopo aver fatto il male, incontrano il bene e imparano a coltivare uno spirito caritatevole.
Certo dobbiamo lavorare tanto per elevarci tutti insieme, e per farlo dobbiamo anche toglierci dal naso i pesanti occhiali con le lenti del pregiudizio. Sono un paio di antiestetici occhiali neri che non donano per niente al nostro aspetto. Non è facile rinunciarci perché abbiamo condizionamenti sedimentati nel profondo ma con l’osservazione del loro potere negativo, e anche con l’aiuto di chi è andato più avanti nella nuova direzione, possiamo farcela.
Allora anche l’incontro su tematiche complesse e difficili come quello della serata con Colombo, l’incontro con gli errori degli altri che ci fanno riconoscere i nostri, sarà più completo, maturo ed educativo.

Pierangelo Scala