Sono ovviamente contraria non solo per motivi politici ma personali, legati a vicende della mia vita ormai lontani, ma che hanno contribuito a costruire la me stessa di oggi.
Partono da quando lavorando alla Olivetti come assistente sociale nel 1955 ero stata incaricata delle visite domiciliari alle persone che avevano fatto domanda di assunzione. Era la stagione della grande immigrazione dal sud al nord ed erano i colloqui quotidiani soprattutto con gli immigrati del sud, arrivati ad Ivrea per costruirsi una vita.
Questa allora sconosciuta umanità dolente mi aveva portata ad affrontare e approfondire la cosiddetta “questione meridionale”, attraverso le pagine dell’Antologia di Caizzi e la Rivista Nord e Sud di Compagna trovate nella biblioteca aziendale.
Ed è in biblioteca che ero venuta a conoscenza delle vicende di Danilo Dolci che aveva scelto di trasferirsi a Partinico per trovare assieme ai contadini siciliani le vie per uscire dallo stato di abbandono in cui si trovavano. Mi aveva colpito l’episodio dello sciopero alla rovescia che, partendo dalla considerazione che se un operaio per scioperare si astiene dal lavoro, lo sciopero dei disoccupati era lavorando. A centinaia dunque si erano riversati per ripristinare una strada abbandonata, bloccati naturalmente dalla polizia e Danilo Dolci arrestato per occupazione di suolo pubblico.
Più o meno l’anno successivo, cambiando luogo, ambiente e lavoro ero ad Aquino in Ciociaria in un villaggio dell’UnrraCasas. Luogo fisico ed ente in cui aleggiava la cultura di Adriano Olivetti, già ex vicepresidente.
Il villaggio aveva una sua dignità estetica e sociale, un semicerchio di casette bifamiliari con un piccolo appezzamento intorno e chiuso ciascuno da uno steccato di legno grezzo e uno spiazzo centrale dove giocavano i bambini. Molto diverso dagli agglomerati Erp.
Il paese era stato teatro di guerra, le ferite ancora aperte. Persone molto povere, gli uomini occupati nei cantieri edili sparsi ovunque e le donne braccianti stagionali.
Calorosi, ospitali e volenterosi nell’aiutare la “piemontese” e così diversi dalla città che avevo lasciato. Da loro ho imparato l’empatia e nel paese ho conosciuto il clientelismo. A Ivrea le assunzioni erano basate su criteri funzionali, lì attraverso il parroco, longa manu del feudo andreottiano.
E’ stato anche l’inizio del pensiero politico.
Qualche anno dopo, l’esperienza dell’ASEM (attività sociali educative per il mezzogiorno) un Progetto espressamente voluto dal Ministro per il Mezzogiorno Giulio Pastore nel 1956 che doveva accompagnare i processi di sviluppo economico attivati dalla Cassa per il Mezzogiorno attraverso una specifica attenzione al “fattore umano” agli attori nuovi dello sviluppo: dirigenti aziendali, amministratori locali, operatori culturali, sindacalisti da contrapporre alla sopravvivenza del vecchio ceto burocratico fascista o prefascista e di una classe dirigente cui faceva difetto la mentalità imprenditoriale.
Prevedeva l’istituzione di sedici Centri sociali giovanili nelle città con più di 10.000 abitanti e quattro Centri Residenziali per l’Educazione degli Adulti.
I primi, dotati di una qualificata biblioteca creata da Paolo Terni – l’essenzialità per un approccio culturale comprensivo per contenuti e materie – ed eventi culturali di livello che toccavano solo le grandi città offrivano alle giovani generazioni uno stimolante luogo di incontro. I secondi proponevano corsi residenziali gratuiti e ripetuti sui temi inerenti lo sviluppo, l’industrializzazione, i servizi alle imprese e l’ammodernamento della pubblica amministrazione.
Entrambe le strutture erano affidate agli enti da più tempo presenti e più qualificati delle regioni meridionali, come l’Animi, le Acli e l’Unrra Casas, il Movimento di collaborazione civica.
Era anche la critica implicita sia alla Riforma agraria, varata nel 1950 con l’esproprio del latifondo e l’assegnazione ai braccianti di unità poderali non competitive, che la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, i cui interventi si sarebbero orientati su una politica delle infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata e intervento diretto dello Stato, entrambe colpevoli di aver ignorato la culture locali e la sedimentazioni di pratiche sociali che avevano una loro logica.
Personalmente l’Asem è stata la palestra della realtà. La Questione meridionale usciva dalle pagine dei libri e piombava nel quotidiano di gente capace e generosa, ma offesa e frustrata da un sistema che l’aveva etichettata senza capire.
Andava per la maggiore il concetto sociologico di Familismo amorale coniato dal ricercatore Edwhard Banfield sul privatismo, che faceva prevalere gli interessi familiari ai bisogni collettivi.
Descriveva unità familiari fortemente coese rispetto una società civile debole, priva di fiducia nelle istituzioni. Veniva di fatto demonizzata, sulla base di stili di vita lontani una difesa, l’unica modalità in possesso dei nuclei del mezzogiorno per sopravvivere.
Credo più aderente alla realtà la definizione contrapposta di Peter Nicholson, editorialista del Times, ossia “La famiglia italiana è un celebre capolavoro che attraversa i secoli, il baluardo, l’unità naturale il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore, il remuneratore”.
Comunque con errori, superficialità e, in molti casi, ingenuità, il sud d’Italia era all’ordine del giorno, faceva parte del paese.
Oggi con l’autonomia differenziata viene scaricato come un peso inutile, un ingombro che limita il pieno decollo di quella parte di paese produttivo, razionale e laborioso.
Il dramma inoltre è che intere regioni del sud non reagiscono, incollate a forme di clientelismo che se premiano i pochi, umiliano tutti.
Ha ripreso l’emigrazione questa volte a rovescio, non più la classe operaia ben accetta dal sistema economico del nord, ma i giovani laureati che, trovando occupazioni corrispondenti alle competenze e giustamente remunerate, abbandonano la patria matrigna.
Purtroppo in un generale silenzio assordante.
Ottavia Mermoz