Nonostante l’opposizione di enti, associazioni e dello stesso comune, il Centro di permanenza e rimpatrio di corso Brunelleschi potrebbe riaprire nelle prossime settimane. Una ferita aperta per la città, un luogo disumano dove nel 2021 si tolse la vita il 23enne guineano Moussa Balde, episodio che ha portato oggi a due rinvii a giudizio. Luogo impenetrabile definito dai sindacati di polizia “essenziale per la sicurezza”, gli avvocati dell’Osservatorio Cpr Torino raccontano una realtà ben diversa. Venerdì 1 novembre corteo contro la riapertura, ore 16:00 in piazza Robilant.
Manca una data ufficiale, ma il bando lanciato quest’estate dalla Prefettura per cercare un nuovo gestore non lascia spazio a molti dubbi. Chiuso a marzo 2023 dopo alcune rivolte interne, sono in corso da allora i lavori di ristrutturazione, altro indicatore delle pessime condizioni della struttura.
Nonostante la grande mobilitazione di enti e associazioni, alla quale si era accodato anche il consiglio comunale di Torino, il governo ha sordamente deciso di procedere con la riapertura.
«Nel marzo dell’anno scorso il consiglio comunale di Torino aveva approvato un odg che chiedeva di non riaprire il Centro, investendo le risorse destinate a esso in politiche di accoglienza e inclusione – racconta l’assessore alle politiche sociali del capoluogo piemontese Jacopo Rosatelli –. Un’istanza che noi abbiamo anche presentato al governo, ma senza mai ricevere risposta. Questa riapertura, oltre che un’offesa alla città, dimostra anche una totale mancanza di volontà di ascolto. Anche nella circoscrizione 3, dove si trova fisicamente il Cpr, è stato approvato un odg simile a quello presentato in comune nel 2023, e il presidente della circoscrizione ha convocato un’assemblea delle associazioni torinesi per creare una rete civica di monitoraggio della struttura, alla quale abbiamo partecipato come amministrazione cittadina».
Una realtà invisibile si presta a tante narrazioni
Intanto, mentre si prepara un corteo contro la riapertura in data 1 novembre, con partenza alle 16:00 da piazza Robilant, si alzano anche le voci a difesa della struttura: «I Cpr sono fondamentali – sostiene Eugenio Bravo, segretario provinciale del Siulp –. Nel centro non vengono quasi mai trattenuti gli irregolari che non hanno commesso reati, ma soprattutto i pluripregiudicati, in modo tale da procedere all’identificazione e all’espulsione. Se collaborano, possono essere rimpatriati in una settimana».
Una narrativa che si scontra pesantemente con quanto raccontato invece dagli avvocati di Osservatorio Cpr, che da anni seguono le vicende dei Centri e delle persone trattenute al loro interno: «Quella dei Cpr non è una detenzione penale, come quella del carcere, ma amministrativa – raccontava su queste pagine di questo giornale l’avvocata Lorenza Della Pepa –. Non potrebbe quindi durare oltre i 90 giorni, anche se poi è possibile allungare questo limite attraverso escamotage burocratici. Non si finisce nei Cpr per aver commesso un reato, questo è importante sottolinearlo, ma solo ed esclusivamente perché si è immigrati senza documenti. Quello di cui non si parla è che se si proviene da certe Nazioni e si è poveri, non esistono modi per entrare regolarmente in Italia. Il vero reato commesso dalle persone trattenute nei centri è quello di essere nati nella famiglia e nella parte del mondo sbagliate. L’assurdità di tutto ciò è che nella pratica i Cpr non svolgono nemmeno la funzione per la quale sono costruiti, poiché i numeri dei rimpatri sono bassissimi».
All’interno del dossier “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” di ActionAid e del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, il Cpr di corso Brunelleschi, definito «una propaggine del carcere», si poteva notare come la percentuale di rimpatri nel 2022 si attestasse intorno al 32%, quasi 12 punti in meno rispetto alla media nazionale. Non solo: nonostante sia stato chiuso per nove mesi, nel solo 2023 il Cpr di Torino è costato oltre 3 milioni e 400mila euro: nessun centro in tutta Italia ha speso di più. Le voci maggiori sono l’affitto della struttura versato a Ferrovie dello Stato, le manutenzioni straordinarie e l’appianamento di debiti con l’ente gestore. Il costo medio di un singolo posto nel 2022 è stato quindi pari a poco più di 16mila euro.
«Per rimpatriare qualcuno sono necessari accordi con le Nazioni di riferimento – continua Della Pepa –. Accordi che non esistono, perché questi Stati chiedono giustamente qualcosa in cambio all’Italia, per esempio vie legali di immigrazione. Questo il cortocircuito che si tenta di risolvere con i Cpr, creando condizioni di vita tremende per convincere i detenuti a farsi identificare e rimpatriare».
Ma le alternative esistono
«A novembre 2023 abbiamo presentato la ricerca fatta l’anno scorso insieme a Monica Gallo, la garante dei detenuti di Torino – continua Rosatelli –. L’obiettivo era capire quali azioni sarebbe possibile intraprendere come alternativa al Cpr che possa raggiungere gli stessi scopi: tra queste l’obbligo di dimora e di firma, similmente alle misure cautelari, sono una possibilità prevista dalla legge vigente. Un’ulteriore alternativa potrebbe essere occuparsi dei casi di stranieri a rischio singolarmente, attraverso un luogo, deciso dalle istituzioni, dove allo scadere del permesso e prima di diventare clandestini gli stranieri possano andare per trovare un modo di regolarizzarsi, se c’è questa possibilità. Anche queste proposte sono presentate al Prefetto e inviate a Roma, ma non vi è stato nessun riscontro. Noi siamo impegnati come città a trovare delle alternative. Il nostro auspicio è che il governo si renda conto che non vogliamo il Cpr e che possa investire le enormi risorse in azioni più efficaci».
Lorenzo Zaccagnini