Di fronte a un’emergenza abitativa crescente, la necessità di una nuova narrazione si impone necessaria per contrastare le diseguaglianze
In Italia siamo in piena emergenza abitativa. Un dato che di per sé non costituisce una novità, ma che nuove ricerche confermano in piena crescita. Secondo l’Istat, le famiglie con figli a carico che vivono in affitto senza potersi permettere una casa di proprietà sono il 20.5% del totale, circa 5.2 milioni, e con l’ascensore sociale non solo fermo, ma in rovinosa discesa, tante scivolano sulla soglia della povertà assoluta.
Soltanto nel 2021, in Italia l’11.5% dei nuclei familiari con minori si è trovato a non potersi permettere beni e servizi che consentano un tenore di vita minimo. Una percentuale che sale al 28.2% per i nuclei in affitto, mentre secondo i dati Istat sulla povertà assoluta le famiglie in affitto schizzano al 45%.
Sempre secondo l’Istat, i senzatetto in Italia sono circa 100mila, dei quali quasi il 40% di origine straniera. Quasi 4.500 vivono a Torino, una delle 6 città italiane dove si concentrano circa la metà dei senza dimora. Per contro, in Italia ci sono circa 10.7 milioni di abitazioni sfitte su 36 milioni censite. A Torino 54mila alloggi tra privati ed edilizia residenziale pubblica risultano sfitti, circa il 15% del totale. Anche nella piccola Ivrea, di circa 11mila alloggi, mille risultano disabitati, quasi il 10%, mentre la crisi degli affitti esonda dalle grandi città e inizia a contagiare anche i piccoli centri.
A fronte di una crisi così evidente, cosa è stato fatto dalla politica?
Il caso Torino: sulle politiche di dis-integrazione abitativa banchettano i ras delle soffitte
La storia delle politiche abitative italiane, dal piano Fanfani del secondo dopoguerra, agli anni ‘90 con la fine dei fondi e l’inizio della liberalizzazione con relativa scomparsa dell’equo canone, fino alla riforma del Titolo V della Costituzione e l’attribuzione delle gestione dell’edilizia pubblica alla competenza esclusiva delle Regioni, sarebbe troppo lunga da trattare in maniera esaustiva.
Basti dire che da quando la gestione è stata affidata alle Regioni la situazione non è migliorata. Rimanendo in Piemonte, la da poco riconfermata giunta Cirio ha approvato nel febbraio di quest’anno la nuova legge sulle case popolari, che favorisce nei punteggi chi ha la residenza da almeno 15 anni in Piemonte e i genitori soli con figli a carico, mentre vieta l’assegnazione per coloro che hanno occupato abusivamente uno stabile Atc nei 10 anni precedenti e mantiene una quota di alloggi riservata alle forze dell’ordine.
Una riforma che insomma si accanisce ideologicamente contro gli stranieri e le persone più fragili, trasformando quello che dovrebbe essere un diritto in un privilegio, che come tale può essere negato, spingendo le persone in difficoltà verso l’illegalità. Una situazione che nutre in maniera più o meno indiretta personaggi come Giorgio Molino, conosciuto come il “ras delle soffitte”, l’imprenditore 82enne che a Torino avrebbe costruito una rete di società fittizie che controllava 1.500 tra appartamenti, box, posti auto, soffitte, cantine e locali vari, al quale la guardia di finanza ha recentemente sequestrato un tesoretto pari a 6 milioni di euro in contanti.
Sistemi di vero e proprio caporalato abitativo in grado di generare un fiume di soldi incassati a fronte dell’affitto in nero di case fatiscenti e sovraffollate, dove spesso le stesse bollette pagate dagli inquilini costituivano una truffa, che durava fino alla sospensione dell’utenza e al relativo sfratto di intere famiglie avvenuto da un giorno all’altro.
Non tutto il panorama politico è però negativo. Alcune iniziative sono state prese anche nell’ottica di tamponare questo genere di situazioni, nel limite del possibile, in particolare da parte dei singoli comuni. Verso la fine di marzo una mozione per consentire la cosiddetta iscrizione anagrafica anche in assenza di un regolare contratto di affitto e consente di derogare, in caso di fragilità, la legge Renzi-Lupi, che vieta l’iscrizione di residenza per chi occupa abusivamente, è stata approvata dal consiglio comunale di Torino.
Un atto rivolto a studenti, stranieri, famiglie in difficoltà o chiunque altro costretto a rivolgersi al mercato degli affitti in nero, ma che in tal modo rimaneva escluso da importanti servizi dedicati ai residenti, come il medico di base, sgravi fiscali, asili e materne. E che si spera serva «a contrastare le tante situazioni di sfruttamento collegate alla condizione abitativa», come sottolinea l’ex consigliera comunale di Torino per Avs Alice Ravinale, oggi divenuta consigliera regionale.
Anche nella più piccola Ivrea dei tentativi sono in atto, come l’apertura dalla sezione canavesana della cooperativa La tenda, promossa dalla vice sindaca Patrizia Dal Santo all’interno del più ampio programma Living better, attivo da 3 anni sul territorio.
Tutte iniziative che, per quanto lodevoli, non rappresentano che un mero tampone a un problema ben più ampio e radicato, e per contrastare il quale nel tempo diverse realtà e individui hanno preso la decisione di agire in maniera più radicale.
Ilaria Salis, le occupazioni e le nuove parole necessarie a scardinare la narrazione reazionaria
L’occupazione di edifici in Italia ha una storia persino più lunga e ancora meno facilmente tracciabile di quella delle politiche abitative, ma in tempi recenti si è imposto principalmente come modello di lotta all’emergenza casa e per la rigenerazione urbana.
Negli ultimi venti anni singoli e gruppi, specialmente ma non solo nelle grandi città, hanno occupato non senza ripercussioni un grande numero case ed edifici per svariati motivi: come forma di riappropriazione politica, per resistere a uno sfratto, per restituire un luogo in stato di abbandono alla comunità, come protesta contro una determinata causa o più semplicemente perché prive di un posto dove stare.
A Torino una delle realtà più rappresentative in tal senso è rappresentata dal collettivo Prendocasa, che da diversi anni fornisce aiuto e solidarietà attiva a singoli e famiglie in emergenza abitativa, resistendo anche fisicamente agli sfratti e organizzando sportelli di supporto e assemblee informative sul funzionamento dei sistemi truffaldini dei palazzinari.
La stessa tematica delle occupazioni è recentemente tornata al centro del dibattito pubblico grazie alle parole della neo eletta eurodeputata di Avs Ilaria Salis, la prima ad aver infranto il tabù: «essere occupante è uno stigma sociale, vuol dire essere trattati come criminali per aver cercato di vivere in modo dignitoso – ha affermato l’eurodeputata –. È logorante. Le case occupate, circa tremila, rappresentano solo una piccola parte delle case sfitte. Un numero di gran lunga inferiore a quello di abitazioni lasciate vuote. L’abbandono è letteralmente ovunque. Tutti abbiamo gli occhi per vedere, ma non tutti hanno l’onestà intellettuale di ammettere questa verità, triste e scomoda per chi è incaricato di gestire l’edilizia pubblica. Quando viene occupata una casa non assegnata, che generalmente si trova in condizioni fatiscenti e in stato di abbandono, l’accusa di sottrarre il posto ad una persona in lista d’attesa semplicemente non regge. Chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket o ai palazzinari. Affermare il contrario è bassa retorica politica, volta a mettere gli uni contro gli altri, affinché nulla cambi».
Si tratta ovviamente di una mosca bianca, ma è la prima volta che affermazioni del genere trovano spazio all’interno del discorso politico e i media di massa. Prevedibilmente infatti è immediatamente avvenuta l’immancabile levata di scudi da parte della politica tradizionale. Non solo la destra: persino lo stesso Bonelli, rappresentante dei Verdi all’interno di Avs e vero elemento frenante della coalizione, ha commentato negativamente a riguardo, mentre il solo Fratoianni si è espresso in difesa della compagna di partito.
Una posizione miope, quella di Bonelli, incapace di riconoscere il potenziale innovativo delle coraggiose dichiarazioni di Salis, che potrebbero rivelarsi in futuro l’ariete necessario a una narrazione più matura e realistica sul tema delle occupazioni abitative.
Il problema principale delle occupazioni abitative è infatti ancora oggi la narrazione del fenomeno da parte dei media di massa, con la riproposizione della favoletta della famigliola di ritorno dalle vacanza che trova la casa di famiglia occupata dai rom, dai drogati, dagli immigrati o dalla categoria capro espiatorio di turno. Una narrazione tutt’ora maggioritaria nell’immaginario del cittadino medio, e sulla quale banchetta la destra di governo per espandere la propria egemonia culturale, spingendo ancora una volta i più poveri a farsi la guerra tra loro e a individuare il proprio nemico nei pochi che si oppongono attivamente all’emergenza.
Lorenzo Zaccagnini