Arresto e rilascio di 37 persone per i disordini del 26 ottobre a Torino. Tra di loro 13 minorenni.
Erano finiti in manette in 37, 24 maggiorenni e 13 minorenni, per l’assalto alle vie del lusso di Torino del 26 ottobre. Una raffica di arresti scattata più di quattro mesi dopo i fatti, che contestava ai 37 il reato di devastazione e saccheggio e ne disponeva la custodia cautelare. Un’accusa pesante insomma, con pene che vanno dagli 8 ai 15 anni di carcere.
Ma anche un’accusa contestata dal giudice Agostino Pasquariello, che non ha convalidato l’arresto, ritenendo che il reato posto in essere sia quello di furto aggravato: a motivare tale scelta la mancanza di organizzazione negli episodi, avvenuti in maniera isolata l’uno dall’altro, ma soprattutto la mancanza di connessione con il filone politico, in mano alla Digos, in quanto nessuno impegnato negli assalti ai negozi ha partecipato agli scontri di piazza e viceversa. Dopo le udienze di convalida, dei 24 maggiorenni solo 7 sono rimasti in carcere, mentre 8 sono agli arresti domiciliari e i restanti hanno l’obbligo di dimora. Non esiste insomma per il gip il “pericolo di fuga”, che motiverebbe l’arresto fuori dalla flagranza di reato: la nazionalità straniera, la mancanza di fissa dimora e un generico riferimento a volersene andare dal paese emerso durate le intercettazioni, tutti elementi portati a motivazione dello stato di fermo, sono stati ritenuti irrilevanti dal giudice, soprattutto a fronte dei quattro mesi trascorsi dai fatti.
Unico caso in controtendenza, un ragazzo moldavo di 23 anni, detenuto nel carcere di Ivrea per altri motivi, sul quale la giudice canavesana Marianna Tiseo si è invece espressa in maniera diametralmente opposta al gip di Torino, convalidando l’arresto e il reato di devastazione e saccheggio. Servirebbe ben più di un articolo per parlare di quest’ultimo reato, ma semplificando molto la distinzione tra furto aggravato e devastazione e saccheggio sta nella sensibilità del giudice che si esprime, al quale è lasciata la valutazione, portando facilmente a questo genere di cortocircuiti legali.
Il botta e risposta fra magistrati e poliziotti torinesi
Non è uno scenario insolito per il panorama torinese, dove è in corso da tempo un botta e risposta tra la magistratura e la polizia, accusata dalla prima di eccedere con gli arresti anche quando non sarebbe necessario: è di due settimane fa lo studio, promosso dai magistrati di Area DG e che ha coinvolto 60 tra giudici e pm, che contesta alla polizia torinese troppi arresti per reati minori, che continuano ad innalzarsi a Torino dal 2016 in poi, pure a fronte di una generale diminuzione dei reati. Innalzamento che non è diminuito nemmeno nei periodi di lockdown, quando il numero dei reati, eccezion fatta per maltrattamenti in famiglia e stalking, è crollato vertiginosamente.
Allo studio di Area DG (Democratica per la Giustizia) ha celermente replicato il Siulp (Sindacato Italiano Unitario dei Lavoratori della Polizia) per voce del segretario Eugenio Bravo, che ha tenuto a sottolineare come “spaccio e resistenza non sono reati minori” e che il problema delle troppe pratiche giudiziarie aperte si risolva aumentando i magistrati piuttosto che diminuendo gli arresti. A poco serve far notare come i reati sopra citati siano quelli che tipicamente ingolfano i tribunali, perché all’atto pratico bisogna ammettere che il Siulp su una cosa non sbaglia, la resistenza e lo spaccio non sono considerati dal nostro sistema giuridico reati minori: lo spaccio di droghe pesanti in particolare comporta pene dagli 8 ai 20 anni (per farsi un’idea: il reato di stupro ne prevede dai 6 ai 12).
Senza negare la tendenza ad avere la mano pesante della polizia torinese, bisogna ammettere che il vero problema sta nell’ordinamento giudiziario, che avrebbe bisogno di un cambio di passo, magari eliminando anche il controverso art. 419, devastazione e saccheggio.
Al di là delle riflessioni di carattere tecnico vi è in tutta questa vicenda un dato che dovrebbe attirare l’attenzione più degli altri: la presenza tra gli arrestati di 13 minorenni, 12 ancora in carcere, in attesa anch’essi dei colloqui individuali. Un campanello d’allarme, indicativo della situazione sociale del paese, che dovrebbe preoccuparci molto di più delle vetrine spaccate e dei negozi depredati.
Chi sono questi minori (non che i maggiorenni arrestati siano molto più vecchi) che assaltano famelici le vetrine del centro?
Un mix di italiani e stranieri di seconda generazione, tutti giunti dalle periferie e dalle famiglie a minor reddito, percettori del reddito di cittadinanza che ora rischiano di perderlo. Una generazione perduta figlia della barbarie sociale che le abbiamo costruito intorno e le cui fila sono destinate ad ingrossarsi.
Sono giovani cresciuti in contesti svantaggiati che spesso nemmeno immaginiamo, che abbandonano la scuola o che vengono abbandonati da essa. Sono i soggetti ai quali la scuola servirebbe di più e che invece decidiamo di bollare come problematici fin dai primi anni di istruzione, condannandoli a un futuro di miseria già scritto grazie ad una profezia che si autoavvera. Perché al di là di tutta la retorica della meritocrazia e dell’impegno che pervertono il senso degli aiuti economici, nella realtà l’unica cosa che avrebbe potuto salvare questi ragazzi sarebbe stata l’istruzione, che se già in passato risultava inefficace e classista, oggi raggiunge nuove vette di disuguaglianza, con la didattica a distanza e i due anni senza scuola che stiamo attraversando.
E così si cresce educandosi da soli, imparando dall’esperienza vissuta e da ciò che la realtà che ti circonda ti insegna: il mito dei soldi, tanti e subito, l’inutilità della cultura, ridotta a status symbol, orpello e vanto di chi se la può permettere, la sensazione di trovarsi perennemente sull’orlo del baratro che deriva dal vivere in uno stato di crisi economica permanente, l’odio per lo Stato, portatore di una giustizia percepita sempre sbilanciata a favore di chi ha i soldi per difendersi.
Queste cose gliele si insegna tutti i giorni e, a dispetto del giudizio di studenti lenti e svogliati, sembrano averle imparate bene. Non è una novità che il disagio giovanile inizi ad essere più evidente, e ormai non si parla solo delle grandi città: anche Ivrea nel suo piccolo ha visto aumentare, almeno a livello percettivo, questo fenomeno, vuoi per il lockdown, per l’assenza della scuola o per la crisi economica galoppante. Operazioni di polizia sempre più in grande stile portano all’arresto di spacciatori sempre più giovani, mentre le cronache dei giornali locali si riempiono di casi di risse tra minorenni e di lamentele delle mamme contro i gruppi di ragazzetti senza mascherina che fumano in pullman.
Eppure basterebbe avvicinarsi così poco per capire così tanto di più
Avvicinandosi a quei muretti seminascosti nei parchi meno utilizzati, vicino a quelle bande minorili che sfumacchiano e parlano a voce troppo alta dei fatti loro, si possono sentire parole che ti aspetteresti più da un meeting aziendale: “fatturare”, “profitto”, “interessi”. Si considerano più vicini all’imprenditore che si è fatto da solo tanto caro al berlusconismo che alla delinquenza, come vengono invece prevalentemente incasellati dall’esterno. Una fame di soldi relativamente nuova, almeno per livello di intensità e maniacalità, rispetto a quello dei “ragazzacci” delle precedenti generazioni. Un comportamento appreso per imitazione, un insegnamento del qual non abbiamo percepito in tempo la malignità, che abbiamo interiorizzato e riprodotto senza tregua in ogni ambito della realtà. Un atteggiamento che ci affrettiamo a condannare solo quando appare in tutta la sua potenza distruttiva, riaffermato in modo assoluto ed esplicito come solo dei giovani senza futuro sono in grado di fare.
L’ennesima generazione sacrificata, come questo Paese fa ormai da anni nel tentativo di reggersi in piedi, pretendendo poi di essere salvato da quegli stessi giovani che ha ritenuto non essenziale educare, aiutare, salvare.
Lorenzo Zaccagnini