Si è conclusa senza alcuna responsabilità la vicenda del rogo di Scarmagno del 2013
La sera dell’incendio di Scarmagno, il 19 marzo 2013, tornavo in auto da Torino, e lo spettacolo che mi si era presentato all’uscita della galleria dell’autostrada era surreale e terribile, tra le fiamme e la nuvola nera di fumo che saliva verso l’alto. Quel drammatico episodio – che per puro caso non provocò vittime – segnò la fine definitiva di quello che era stato un polo industriale di prima grandezza dell’Olivetti, un’eccellenza dell’elettronica e poi dell’informatica, con il famoso M24.
Gli ultimi anni dello stabilimento di Scarmagno hanno visto il succedersi di eventi negativi, dalla cessione dell’OpComputer alla traiettoria di Cms e Oliit conclusasi nelle aule dei tribunali con procedure fallimentari, per finire con le aziende nate per collocare gli esuberi dell’Olivetti: Innovis, Celltel e Wirelab.
Dai quasi seimila lavoratori dei tempi dell’M24 alle poche centinaia sopravvissuti fino al rogo del 2013: oggi Wirelab non c’è più, Celltel è fallita e i 120 lavoratori di Innovis fanno i mohicani metalmeccanici dentro Comdata a Palazzo Uffici.
È una storia che andrebbe raccontata, una storia sindacale, di lavoro, soprattutto di persone, prese in mezzo da traversie complicate e spesso incomprensibili, che, dall’occupazione durata mesi a tutto ciò che è successo prima e soprattutto dopo, hanno sempre cercato di non delegare ad altri il proprio destino. Una sconfitta per loro, ma per tutto il Canavese: l’incendio, anche plasticamente, ha rappresentato la distruzione di un patrimonio straordinario, la ciliegina su una torta venuta male, con tante promesse non mantenute e assemblee sempre più cariche di inevitabile frustrazioe e disillusione, consumate nel parcheggio del bar a qualche centinaio di metri dall’ingresso dello stabilimento, nella quasi indifferenza di un’opinione pubblica che già aveva rimosso quel patrimonio, considerandolo un corollario un po’ fastidioso di una storia ormai finita da tempo.
E ora anche la conclusione beffarda e molto italiana del processo: nessuna responsabilità per il rogo. E nessuno, soprattutto, che senta il dovere di dire che è uno scandalo, che non può finire così, per rispetto verso i lavoratori – innanzitutto – e poi per un dovere elementare di verità che non può fermarsi qui e che deve restituire almeno un po’ di giustizia per chi in quelle fiamme ha visto andare in fumo il proprio futuro.
Federico Bellono