Un film del Cineclub Ivrea che fa discutere
Se la regista Meryem Benm’ Barek, al suo film di esordio, fa un ‘opera del genere, vincendo addirittura il premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes dell’anno scorso, allora c’è ancora modo di sperare in un futuro migliore. Un futuro da affidare alla sensibilità di donne come questa, idonee alla perfetta lettura del reale, piuttosto che alla pletora dei politici, esercitati a gonfiarci le orecchie a furia di proclami e slogan di propaganda.
Sì perché questo è un film che tutte le politiche o le religioni fasulle dovrebbero analizzare per fare ammenda dei danni commessi.
Lo scenario della vicenda è quello dove trionfa l’ipocrisia come stile di vita, l’asservimento alla dittatura dell’interesse economico, l’assoggettamento alla convenienza sociale, la genuflessione e l’assuefazione alle regole tradizionali, un conformismo rassegnato e tinto di falsità.
Siamo nel Marocco, paese magrebino dove la sessualità, fuori dal matrimonio, è ancora un reato punibile con l’arresto e un atto innaturale da coprire di vergogna.
Sofia, una ragazza di agiata estrazione familiare resta incinta.
Il severo condizionamento sociale, l’onta e il timore della situazione spingono la gestante ad ignorare il suo stesso stato interessante, secondo quel processo psicologico che l’esperienza medica definisce come “diniego di gravidanza”.
Naturalmente il bluff ha i mesi contati e alla sua fisiologica scadenza, rotte le acque, una nuova creatura si affaccia al cospetto di una società che tutto contempla fuorché la gioia di accoglierla.
Intorno a Sofia ruotano la cugina, che si prodiga nel darle una mano nel momento del parto, i genitori della puerpera, la zia e un progetto speculativo altamente redditizio che coinvolge entrambe le famiglie e altri soggetti che non vedrebbero certo di buon grado il profilarsi di uno scandalo di tale portata. Che fare dunque per omaggiare le apparenze e sistemare la cosa? Non resta che il classico matrimonio riparatore, anche di italica memoria, allestito in fretta e furia per scongiurare malelingue e facili riprovazioni morali.
Naturalmente, anche se è vero che la sessualità inibita fa da propulsore principale al meccanismo della storia, sarebbe un errore riferirla soltanto all’arretratezza morale del Marocco quando anche nei cosiddetti paesi civilizzati, come il nostro, fioccano crimini a matrice sessuale come i femminicidi.
Ma, al di là della castrazione di sessualità, il modus vivendi visionato dal film assume un riferimento universale quando rivela la nostra meschinità nel campo spicciolo degli interessi di bottega. Infatti, pur di lucrare vantaggi personali di natura sociale ed economica, i protagonisti esaltano la finzione generale. La nostra penosa gerarchia di valori è spietatamente messa in luce.
Le problematiche esplodono in tutte le loro contraddizioni sempre però ricondotte e ricomposte all’insegna della pace sociale, della correzione degli errori occultandone la verità delle cause.
E così fa anche la madre del presunto padre scelto da Sofia come sposo, uno sposo fragile e povero a cui il riconoscimento di paternità procurerà una notevole sistemazione.
Tutti, in definitiva, barano con la realtà che ribolle sotto pelle in forme rabbiose e vendicative come quando Omar, lo sposo di Sofia, si spende i primi soldi, diretti ai bisogni primari della neonata, con una prostituta di alto bordo.
Insomma, in un mondo interamente simulato, la felicità non è di casa e il commento generale a chiosa potrebbe suonare come “Tutto è falso, questa è la verità”.
L’unico elemento di vita, estraneo alla finzione generale, è la bambina di Sofia, il parto innocente della verità, una verità ridotta a fagotto che passa di mano in mano, cullato più dall’imbarazzo che dall’amore, l’unica forza che, invece, potrebbe cambiare le cose.
Altro spunto di verità si deve alla scelta di regia che asseconda, attraverso il personaggio di Sofia, la finzione fino in fondo cosicché questa affiori in tutta la sua desolante nudità, come a spedirci un salutare cazzotto nella profondità della coscienza.
Pierangelo Scala