Vespino, il carcere, la parola “giustizia”, una madre

Ridurre le distanze tra il dentro e il fuori dal carcere non è soltanto un dovere civile che si sposa con l’idea di migliorare nel suo complesso una comunità, ma è anche l’occasione per comprendere più a fondo l’idea che abbiamo della parola “giustizia”.

Il concetto di giustizia ci impegna a un continuo lavoro di aggiornamento, verifica e sorveglianza. Giustizia non è limitarsi a privare della libertà un condannato a pena detentiva, non è istinto vendicativo, non è rabbia da coltivare e fomentare in se stessi, non è nemmeno ergersi a giudici infallibili del destino altrui. Il primo onore da rendere alla parole giustizia è quello di non confondere la stessa con la parola giustizialismo. Oggi più che mai abbiamo bisogno di non perdere lucidità nel considerare gli accadimenti. La realtà percepita è quella del pericolo sociale crescente, quella della criminalità diffusa come spesso ci ricordano le cronache, quella dell’insicurezza che deriva da nuove paure e povertà. Tra le parole più manipolate, anche dagli addetti ai lavori e dagli esperti che sono chiamati a gestirla e amministrarla, c’è proprio la parola giustizia. In un bell’articolo su questo tema si era espresso, con la consueta efficacia, proprio Andrea Pagani, in arte Vespino secondo lo pseudonimo da lui adottato nella sua felice collaborazione con “La Fenice”. Vespino, come sappiamo, è deceduto recentemente nel carcere di Ivrea, dopo essersi sentito male e dopo aver sofferto per un’intera settimana in circostanze ancora tutte da chiarire. La sua morte poteva essere probabilmente evitata se solo la tutela della salute fosse ritenuta come un diritto e una priorità inalienabili, invece che un privilegio per pochi. In questo senso, anche la sua fine richiama al dovere di rendere giustizia alla parola stessa.
La sua scomparsa ha rattristato molto i suoi compagni di detenzione, coloro tutti che collaborano alla realizzazione de “La Fenice”, questo inserto del giornale varieventuali che, sotto il coordinamento di Olivia Realis Luc, fornisce un’occasione concreta ai reclusi di esprimere le loro opinioni e le loro riflessioni e ha colpito anche tutti coloro che, come il sottoscritto, non si perdevano uno dei suoi scritti.
Vespino sapeva dunque, anche per averlo sperimentato direttamente, di come la giustizia possa essere doppiamente interpretata nella spregiudicata dialettica tra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa. Sapeva come la giustizia sia un compito difficile per avvocati e giudici, sapeva quanta responsabilità comporti il valutare oggettivamente i fatti e formulare le corrette sentenze. Vespino sapeva che la giustizia non può prescindere dalla verità, una verità che lui non faceva mancare a se stesso, una verità senza orpelli e scuse di sorta, diretta e trasparente che non disconosce le colpe commesse, ma induce ad affrontarle nella determinazione di perseguire il riscatto etico e sociale.
Prendere coscienza dei propri errori è il primo passo per non rendere inutile il carcere, il secondo è esercitare attività di formazione e di impegno che possano ridare speranza. Chi sta pagando un debito, senza fingere con se stesso, deve essere incoraggiato sulla strada di un nuovo cammino. In fondo, come spesso si dice, solo chi cade può rialzarsi, solo chi si perde può ritrovarsi. In questo senso, La Fenice esplora un campionario di umanità dove le parole giustizia e verità ricuperano il senso dell’autentico.
Dopo la scomparsa prematura di Vespino, adesso sappiamo anche quali sono stati i motivi che l’hanno condotto in carcere: la dipendenza dalla droga, le liti continue con il padre, il suo omicidio. Sappiamo quanto fosse lunga, in anni da scontare, la sua pena e intuiamo anche il peso e il travaglio del suo vissuto, il fardello che ingombrava la sua coscienza.
Mi ha parecchio colpito un’intervista recente di cui è stata oggetto, sulla Stampa, sua madre, una donna provata inverosimilmente. Una donna che perde il marito ad opera del figlio e poi perde anche il figlio mentre sta pagando il suo debito con la giustizia. Un figlio che ha conosciuto l’inferno della droga e dell’alcool fino al compimento di un’azione fatale. Eppure la forza di questa donna ha qualcosa di eccezionale; lei non parla a vanvera di perdono, altra parola mistificata come quelle di giustizia, verità e amore; lei dice semplicemente che non esiste la parola perdono per chi si è macchiato di una colpa così grave ma, al contempo, dichiara che suo figlio non l’aveva e non l’avrebbe mai abbandonato. Ecco, in queste parole c’è tutta quella capacità di comprensione che sa di straziata ma anche di esemplare saggezza.
Questa madre sa che il perdono, quello vero, acquista un senso profondo solo quando il colpevole riesce a perdonare se stesso e anche lei, chiedendosi ripetutamente dove può aver sbagliato nell’educazione del figlio, non sa ancora come perdonarsi. E suo figlio sa bene che non avrebbe potuto ferire di nuovo una madre così. Quindi, è anche in relazione alla capacità di capire, che questa donna ha sempre coltivato, (una forza che non è soltanto frutto dello spirito materno) che emerge in Vespino la volontà di farcela.
Adesso la donna vuole leggere e rileggere gli articoli di suo figlio su “La Fenice”, parole che raccontano di una vita dietro le sbarre paradossalmente più libera di quella che l’ha condotto alla deriva. Madre e figlio hanno conosciuto l’abisso ma, ripeto, la madre non ha mai abbandonato il figlio e anche per questo il perdono arriverà come un dono reciproco anche se lui non c’è più. E con il perdono rinascerà anche la pace interiore da tanto tempo perduta.
E’ così che dovrebbe essere l’umanità e anche la società tutta, con meno retorica sbandierata sulle parole “giustizia, perdono, amore e verità”, con meno perdonismi appunto e meno accanimento giustizialista e con più attenzione all’esempio illuminante di questa madre.

Pierangelo Scala