Dalla riforma del 1993 che ha portato alla elezione diretta dei sindaci, i consigli comunali sono stati svuotati di funzioni. Il “presidenzialismo locale” ha migliorato l’istituzione più vicina alla cittadinanza quale è il Comune? Molti sono i dubbi.
Mentre il Consiglio comunale della città vive un momento di crisi culminato nella richiesta della minoranza di revoca dal ruolo di Presidente di Luca Spitale, viene naturale riproporre i dubbi di tanti e riflettere sulle conseguenze della legge 81 del 1993 che ha sancito l’elezione diretta dei Sindaci. Prima del ’93 il sindaco veniva eletto all’interno del consiglio comunale, dopo la riforma sono i cittadini a votare direttamente il candidato sindaco. La legge 81/93 ha di fatto svuotato il consiglio comunale e ha segnato la fine della democrazia rappresentativa nei comuni, facendo anche da battistrada per il sistema maggioritario nelle elezioni nazionali. Con la legge 81/93 il principio della “democrazia rappresentativa” è stato dunque messo da parte a favore della “rappresentanza elettiva” che non risponde più proporzionalmente al voto delle cittadine e dei cittadini.
La legge passò non certo con un consenso trasversale, alla Camera furono 271 i voti favorevoli (DC, Psi, Psdi) contro 207 voti contrari (La Rete, Lega Nord, Msi, Federalisti Europei, Pli, Pri, Verdi, Rifondazione Comunista) e 99 furono gli astenuti (Pds). Al Senato, dopo alcune modifiche, il Pds votò a favore.
Fra le diverse dichiarazioni di voto contrario, riprendo quella di Mario Brunetti del Prc, partito che si oppose radicalmente cogliendo la pericolosità di questa legge: “La prima ragione che muove la nostra opposizione radicale a questa riforma è legata al fatto che essa è molto di più di una nuova legge elettorale per i Comuni. È il primo, decisivo passo di una mutazione profonda dell’intero sistema politico e istituzionale, rivolta ad affrontare e risolvere la crisi che attualmente lo investe attraverso una forte concentrazione del potere, un deperimento della democrazia partecipata e organizzata che ha caratterizzato la storia dell’Italia antifascista, e l’assunzione di un’altra ipotesi di sistema politico, quello comunemente definito presidenzialista …”
Lo scopo della riforma
Le intenzioni dichiarate della riforma erano fra le altre quella di sanare la situazione di instabilità amministrativa nella quale si trovavano molti comuni italiani e quella di andare in soccorso al crollo di credibilità dei partiti dopo le inchieste di Tangentopoli. La legge aveva poi l’ambizione di contrastare l’astensione, le forze politiche favorevoli alla riforma credevano infatti che l’elezione diretta del Sindaco avrebbe riavvicinato i cittadini alla politica.
Oggi, a più di 30 della sua entrata in vigore, si può dire che quella legge ha fallito i suoi scopi. Probabilmente ha scongiurato alcune crisi di giunta, perché un sindaco sfiduciato vuol dire tornare alle urne (mentre prima del ’93 si tornava al Consiglio comunale), ma per quanto riguarda il contrasto all’astensionismo i dati dimostrano che non ha contribuito ad una maggiore partecipazione al voto, se non nella sua primissima fase. Inoltre l’accentramento di ampi poteri sul sindaco, tra i quali nominare e revocare gli assessori, nominare le figure apicali in Enti, Fondazioni, Società consortili, Partecipate, ha assegnato alla figura del primo cittadino sproporzionati poteri senza controbilanciamenti. In conseguenza di ciò abbiamo avuto almeno due effetti collaterali molto severi: il depotenziamento del consiglio comunale e l’apertura ad una gestione di tipo manageriale delle amministrazioni comunali.
Queste riflessioni possono essere utili per comprendere perché oggi ci troviamo di fronte ad una crisi dei consigli comunali e di partecipazione, conseguenza della sostituzione del valore della rappresentanza, ovvero del diritto di tutte le cittadine e di tutti i cittadini di essere rappresentati nei Comuni e nel Parlamento, al valore antidemocratico ed effimero della “governabilità”.
Che fare?
Ma come muoversi anche all’interno di una legge, con tutti i suoi limiti ma comunque legge, per garantire partecipazione e scambio reciproco (cittadini-amministrazione) e ridare valore e pari opportunità all’interno del Consiglio Comunale affinché non sia solo un ratificatore di decisioni prese dalla Giunta?
Se vi è la volontà di farlo, di certo si deve partire con il ridare centralità al Consiglio Comunale, che deve essere il referente di tutte le istanze territoriali in quanto organo di confronto democratico e decisionale.
E occorre anche recuperare quel “fairplay politico” che garantiva equilibrio assegnando alla minoranza la presidenza del consiglio. Possiamo datare l’inizio la fine di questa buona pratica al 16 aprile 1994 (primo governo Berlusconi), quando venne eletto a presidente del Senato il liberale Carlo Scognamiglio Pasini e a presidente della Camera dei deputati la leghista Irene Pivetti, due esponenti della maggioranza. Questa scelta determinò il superamento della consuetudine che per quasi 20 anni aveva visto attribuire la presidenza della Camera ad un esponente del maggior partito di opposizione. La maggioranza ha già dalla sua i numeri, il governo (la giunta), per portare avanti le proprie politiche senza necessità di occupare tutti i ruoli in testa. I presidenti delle camere (dei consigli comunali) diventano con questa pratica “presidenti di garanzia”. Compiono la piena democrazia.
Purtroppo, anche nel nostro consiglio cittadino la maggioranza ha lasciato da parte il fariplay politico eleggendo uno dei suoi a Presidente. Tutto lecito, naturalmente. E’ solo una questione di “opportunità”. Ma quand’anche si decide di tenere per sé anche il ruolo di Presidente del Consiglio Comunale, occorre che questa o questo, una volta messo piede nella sala consiliare, si tolga il cappello di partito, di coalizione, per indossare quello di uomo (o donna) istituzionale prima di ogni cosa per garantire pari opportunità a maggioranza e minoranza. Non è semplice, ma è necessario.
Lo svolgimento degli ultimi consigli comunali eporediesi non è stato esattamente improntato su principi fin qui scritti e non poche cadute di stile e di forma sono echeggiate nella sala consiliare.
Sarebbe dunque questo il momento giusto, opportuno, per fermarsi a ragionare insieme, maggioranza e minoranza facendo ognuno la sua parte, su quale Consiglio Comunale ha diritto e bisogno la città. Non è la pacificazione delle posizioni politiche che si invoca, ma il rispetto dei ruoli, della forma e dunque anche della sostanza.
Cadigia Perini