Riflessioni in libera uscita (loro sì) sul carcere
In un’intervista a La Repubblica dello scorso primo gennaio il Direttore delle Carceri Italiane Bernardo Petralia, fino a marzo 2020 magistrato antimafia, ricorda: “Quando vinsi il concorso in magistratura, mio suocero penalista mi disse che per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere. Adesso capisco fino in fondo quelle parole”.
Una affermazione che potrebbe far ben sperare, insieme alla sua convinzione ferma dell’importanza del lavoro come occasione preziosa per i detenuti (“15.827 detenuti, cioè il 30% dei 54mila presenti, lavora. E riesce anche a cambiare vita“). E così scopriamo che a Rebibbia sono i detenuti a gestire il call center dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, E che dal carcere di Lecce e da Rebibbia femminile escono, rigenerati e come nuovi i modem della Linkem. E sono i detenuti a occuparsi della bonifica del parco Rogoredo di Milano e della pulizia dei giardini e delle coste dell’isola di Favignana.
Allora un altro carcere è possibile? E da chi dipende la concretizzazione di questa speranza? Quali sono i soggetti in grado di avviare una sinergia, da fuori a dentro e viceversa per dare a chi è in carcere il più possibile una parvenza di “vita“?
Ce ne sarebbe bisogno, di poter sperare, se poi si allarga lo sguardo alla situazione generale delle carceri italiane. Luigi Manconi, fondatore e presidente della Onlus “A buon diritto“, e interlocutore obbligato quando si parla di emergenza carceraria, in un articolo su Repubblica dello scorso 4 gennaio, invita a pensare a “cosa sia effettivamente il carcere, se lo osserviamo dal punto di vista dei bisogni elementari non soddisfatti e dei diritti fondamentali non tutelati. E si tratta di cose note. O meglio: considerate a tal punto conosciute da non essere più citate perché parti di una fisiologia detentiva che si dà per fatale e irredimibile.” Basti pensare – continua Manconi – (il suggerimento è dell’avvocata Maria Brucale) al ‘paradigma bidet’: come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita ‘senza bidet’ e – per una buona parte delle celle del sistema penitenziario – con cesso ‘alla turca’ e, in genere, esposto alla vista. Se questo è spesso il luogo dove, in questo paese, vivono il loro quotidiano 54.134 detenuti e 36.939 agenti penitenziari, in piena pandemia da Covid, parole come sovraffollamento, regole igienico-sanitarie, prevenzione sembrano davvero fantascienza.
Come si colloca in questo scenario il Carcere di Ivrea, dove la presenza, in data 23 dicembre 2021, è pari a 202 detenuti contro una capienza di 194?
Nel sesto Dossier delle Criticità Strutturali e Logistiche delle Carceri Piemontesi, presentato a Torino lo scorso 29 dicembre, l’onorevole Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, evidenzia una serie di criticità strutturali pesanti, relative al carcere eporediese. Servono al più presto un intervento urgente sui serramenti dell’istituto, (almeno per evitare le infiltrazioni di pioggia che spesso allagano le celle maggiormente esposte alle intemperie), la sistemazione del campo sportivo (al fine di poterlo utilizzare tutto l’anno, e non solo nella bella stagione), il completamento del sistema di videosorveglianza delle aree comuni interne dell’istituto (al momento il sistema è stato attivato solo per il primo e terzo piano, mentre mancano ancora il secondo ed il quarto). Sono necessari inoltre il potenziamento dei locali di formazione e scolastici, e il completamento dell’area dedicata all’accoglienza dei parenti in visita. Perché non utilizzare a questo fine, propone Mellano (“Se non ora, quando?“) i 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e i fondi messi a disposizione dal Governo?
Ed è dello scorso 9 gennaio la lettera inviata da un uomo di 54 anni detenuto a Ivrea alla procura e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in cui egli ha denunciato presunte pressioni psicologiche da parte degli agenti di sorveglianza nei suoi confronti e di altri detenuti. Secondo quanto ha scritto nei due distinti esposti all’uomo non sarebbero stati consegnati i pacchi di alimenti spediti dai famigliari per Natale; inoltre gli sarebbe stato sequestrato il computer portatile che utilizzava per il suo lavoro da intarsiatore, nell’ambito di un progetto interno del carcere. Una “piccola” storia di ordinaria detenzione annegata nella realtà di tutti i giorni.
Draghi e Cartabia, visitando il 14 luglio scorso il carcere di Santa Maria Capua a Vetere, dove avvenne il pestaggio a freddo di alcuni detenuti e il conseguente arresto delle guardie carcerarie responsabili della violenza, hanno affermato che “Non c’è giustizia dove c’è abuso“. Grande o piccolo che sia. Le carceri, afferma sempre Bernardo Petralia nella sua intervista, “sono luoghi di prigionia. E uso volutamente questo antico termine che fa comprendere come in quei luoghi si venga tristemente privati del bene prezioso della libertà“. Ogni commento è davvero superfluo.
Simonetta Valenti