Il calo delle vendite di auto è una realtà, ma i profitti dei principali produttori europei, Stellantis inclusa, rimangono miliardari. Nonostante questo, le case automobilistiche battono cassa agli Stati e vogliono far pagare alla collettività i loro tentennamenti verso la transizione elettrica.
“La transizione industriale, si dice. Ma qui il rischio è la “cessazione” industriale. Il comparto dell’automotive in Italia è arrivato a un drammatico livello di criticità. Il disimpegno di Stellantis, le difficoltà della Germania, il taglio al fondo del settore deciso dal governo, tutto sembra concorrere alla sua scomparsa. Un settore strategico per il Paese, che ancora oggi rappresenta l’11% del Pil nazionale.” Inizia così un articolo di Collettiva (il quotidiano web della Cgil).
Per Stellantis la produzione totale nel 2024 si fermerà a circa mezzo milione di unità, ad essere ottimisti, un terzo in meno rispetto all’anno precedente e solo la metà rispetto all’obiettivo di un milione. A Mirafiori gli operai hanno lavorato solo cinque giorni a luglio e altrettanti a settembre, mentre si preannuncia un nuovo fermo per tutto il mese di dicembre. La produzione della Fiat 500 elettrica è stata interrotta per quattro settimane, le Maserati sono prodotte in numeri limitati, la situazione dello stabilimento torinese è tra le più critiche del paese. In totale nel polo produttivo di Torino, si registra una riduzione dei volumi del 68,4%.
Un calo delle vendite inevitabile “I costi di acquisto di un’auto sono cresciuti del 30%, ma i salari come ben sappiamo in Italia sono fermi al 1990”, ricorda Duccio Zola, ricercatore di Sbilanciamoci.
La situazione italiana non è isolata, ma rientra in una crisi europea del settore automotive. Le notizie provenienti dalla Volkswagen che vuole chiudere tre fabbriche in Germania (con migliaia di licenziamenti) sono molto preoccupanti anche per noi. “Lamborghini e Ducati – ci ricorda il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma – sono direttamente collegate ad Audi (gruppo Volkswagen) e gran parte della filiera della componentistica (soprattutto quella del Nord Italia) lavora per l’industria automobilistica tedesca.”
E sappiamo bene che attorno agli stabilimenti di produzioni delle auto vi sono numerose imprese dell’indotto che vivono di conseguenza una pesante crisi che sta portando al rischio chiusura e all’uso massivo della cassa integrazione. Spesso si tratta di aziende con rapporto di committenza unica (o preponderante) con Stellantis. Questa crisi la tocchiamo con mano nel nostro Canavese: sono 130 le richieste di cassa integrazione preventiva che, superando la soglia massima, si trasformeranno in cassa straordinaria. Alle aziende che registrano cali di ordini dal 30 al 40% si devono aggiungere quelle completamente ferme a causa del blocco degli stabilimenti Stellantis sui modelli elettrici di Cinquecento e Panda. «Qualcuno aveva iniziato a investire in maniera importante proprio sull’elettrico – afferma Gianni Pestrin, Fiom Cgil Canavese – e adesso si ritrova in una situazione in cui il committente gli dice: aspettiamo, cerchiamo di capire dove si va a parare». Il ritardo tutto italiano nell’avviare la transizione ecologica nell’automotive sta portando il settore al collasso.
Il 30 ottobre in Parlamento, nel corso di un’audizione informale da parte delle Commissioni Attività produttive di Camera e Senato in merito alla situazione Stellantis, il leader della Fiom De Palma ha denunciato: “Stiamo vivendo il fallimento del suo piano industriale relativo agli stabilimenti in Italia, che in verità è una semplice enunciazione di principi e di intenti non corroborati da impegni precisi e vincolanti. Non ci sono garanzie sulle produzioni future.”
Il vero problema di Stellantis in Italia è questo: non vi è un piano di conversione e rilancio. In Italia, a eccezione della 500 a Mirafiori, non si producono auto elettriche, ma solo modelli esclusivamente endotermici, programmati ancora da Fca, nulla di nuovo da Stellantis.
Le “rassicurazioni” del ministro Urso
“Se continua questo trend, nel 2027 non ci sarà più l’industria dell’auto“, afferma rassicurante il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso all’inaugurazione della Casa del made in Italy a Bologna, quindi “occorre anticipare le decisioni su quelle cause di revisione già previste nei regolamenti all’inizio del prossimo anno così da decidere insieme cosa modificare per salvaguardare l’industria europea“.
E cosa fa il governo per “salvaguardare” l’industria? Un bel taglio di 4,6 miliardi di euro al fondo automotive, pari all’80 per cento delle risorse previste. E dove sono stati spostati quei soldi? Verso l’impresa pubblica, la sanità, la scuola? Nulla di tutto questo, sono denari che finiranno all’industria delle armi.
Privatizzare i profitti, socializzare le perdite
Nonostante il calo produttivo, gli utili dei gruppi del settore continuano però ad essere miliardari. Stellantis tra il 2021 e il 2023 ha registrato profitti per quasi 50 miliardi di euro destinati alle proprie riserve e agli azionisti che già hanno beneficiato dal rialzo della quotazione delle azioni (il titolo Stellantis nel triennio 2021-2024 ha raddoppiato il suo valore).
Perché dunque a fronte di questi profitti si parla di chiusura di stabilimenti, cassa integrazione, uscite “volontarie” (sono 3.800 solo nel 2024, oltre 12 mila dal 2015)? Il fatto è che l’industria automobilistica ha l’antico vezzo di “privatizzare i profitti” e “socializzare le perdite”. Gli utili si dividono all’interno, mentre ad ogni calo delle vendite si batte cassa al governo di turno per ottenere incentivi e cassa integrazione.
Cadigia Perini