La salute non è una prestazione da “portare dentro”, è una condizione che dipende prima di tutto da come si vive. La prevenzione che ignora le condizioni di vita non è prevenzione: è compensazione simbolica.
Ai primi di novembre Paola Severino, già ministra della Giustizia e oggi presidente della Fondazione che porta il suo nome, ha firmato con l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio, con il ministro della Salute Orazio Schillaci e con Alba Di Leone, chirurga senologa del Policlinico Gemelli e rappresentante dell’associazione Think Pink Italy, la Convenzione per la Promozione della Prevenzione e della Tutela della Salute della Donna detenuta. L’accordo prevede un programma pluriennale di prevenzione oncologica negli istituti penitenziari. «La salute è un diritto che deve arrivare ovunque», ha commentato Severino.
Sembra esserci un paradosso che attraversa il dibattito pubblico sulla salute in carcere, e che nel caso delle donne detenute diventa ancora più evidente: il corpo diventa improvvisamente visibile – oggetto di campagne, protocolli, dichiarazioni solenni – mentre i diritti restano se non invisibili alquanto opachi. È il corpo che si può misurare, esaminare, raccontare, non la condizione di vita.
Il recente accordo tra Ministero della Giustizia, Ministero della Salute e soggetti privati per promuovere la prevenzione oncologica negli istituti penitenziari femminili viene così presentato come un atto di civiltà: la salute come diritto che deve “arrivare ovunque”. Un’affermazione che richiama direttamente l’articolo 32 della Costituzione e che difficilmente può essere contestata. Ma il punto non è il principio. È il modo in cui lo si traduce.
Perché quando la prevenzione viene isolata dal contesto, rischia di trasformarsi in una scorciatoia simbolica: qualcosa che si vede, si fotografa, si comunica, mentre tutto il resto resta immobile.
Le donne rappresentano poco più del 4 per cento della popolazione detenuta, ma concentrano una quantità sproporzionata di vulnerabilità: povertà, migrazione, violenza di genere, dipendenze, disturbi psichici, percorsi sanitari discontinui. Molte sono madri. Alcune vivono la gravidanza o i primi mesi di vita dei figli in carcere, nonostante sia noto – e ampiamente documentato – che i primi mille giorni siano decisivi per la salute futura.
In questo quadro, la salute non può essere ridotta a una mammografia o a un’ecografia eseguita da un’unità mobile. Non perché quegli esami non servano, ma perché non bastano.
I determinanti reali della salute delle donne detenute sono altri: sovraffollamento, isolamento affettivo, trasferimenti frequenti, discontinuità terapeutica, difficoltà di accesso ai servizi territoriali.
Il sovraffollamento, in particolare, è un dato strutturale. A fronte di circa 45.600 posti regolamentari, le persone detenute in Italia superano stabilmente le 63.000. Non è una cifra astratta: è una condizione che incide sulla salute fisica, su quella mentale, sul rischio di autolesionismo e suicidio. Ed è una condizione più volte censurata dalle corti nazionali ed europee.
Lo stesso vale per l’affettività. Con la sentenza n. 10 del 2024, la Corte costituzionale ha affermato che il diritto alle relazioni affettive delle persone detenute non può essere sacrificato in modo assoluto. Non è solo una questione di umanità: è una questione di salute. Eppure, nella pratica quotidiana, la separazione dai figli e dai legami familiari continua a rappresentare una delle principali fonti di sofferenza per le donne detenute.
È in questo contesto che la prevenzione oncologica rischia di diventare un paradosso. Perché mentre si investe su esami diagnostici ad alta tecnologia, restano intatte le condizioni che producono malattia. Si interviene sul corpo, ma non sull’ambiente che lo consuma.
C’è poi un elemento che rende l’operazione ancora più problematica: le persone detenute non sono escluse dal Servizio sanitario nazionale. Dal 2008, con il trasferimento della sanità penitenziaria al SSN sancito dal DPCM 1° aprile 2008, lo Stato ha riconosciuto il principio di equivalenza delle cure. Questo significa che le donne detenute hanno già diritto agli screening oncologici pubblici, basati su evidenze scientifiche, con criteri definiti, raccolta dati, follow-up e presa in carico.
Scavalcare questo sistema con interventi “speciali” e privati non rafforza il diritto alla salute: lo frammenta. Nel linguaggio della sanità pubblica questo approccio ha un nome preciso: prevenzione opportunistica. È una prevenzione episodica, non programmata, che intercetta chi è disponibile in quel momento, senza garantire continuità e senza produrre dati utili. In carcere, dove la libertà di scelta è già limitata, il rischio è evidente: diagnosticare una patologia senza essere certi di poterla curare.
BOX 2–
Il corpo delle donne detenute diventa così visibile, medicalizzato, raccontabile. Ma i loro diritti restano sullo sfondo. La salute viene presentata come qualcosa da “portare” in carcere, anziché come un diritto da garantire stabilmente, in coerenza con l’articolo 27 della Costituzione, che impone pene non contrarie al senso di umanità.
Occuparsi seriamente della salute delle donne detenute significa partire da ciò che non fa notizia: ridurre il ricorso alla detenzione, soprattutto per le madri; applicare davvero le misure alternative; garantire continuità terapeutica dentro e fuori dal carcere; rafforzare la sanità pubblica penitenziaria; riconoscere l’affettività come determinante di salute.
La prevenzione oncologica è una cosa seria. Proprio per questo non può diventare un gesto compensativo, né una risposta simbolica a diritti che restano sospesi. La salute non nasce da un esame né da un’unità mobile che attraversa un cancello: nasce da condizioni di vita che non ammalano, da cure che non si interrompono, da relazioni che non vengono recise. In carcere, più che altrove, prevenire significa prima di tutto rendere vivibili il tempo, lo spazio e le relazioni dell’esistenza quotidiana. Solo dentro questo quadro la prevenzione ha senso, perché solo così la salute smette di essere un evento occasionale e torna ad essere un diritto.
Miriam Perini
Fonti essenziali
- Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 27 e 32
- DPCM 1 aprile 2008, sanità penitenziaria nel Servizio sanitario nazionale
- Corte costituzionale, sentenza n. 10/2024
- Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dati statistici
- Ministero della Salute, Programmi di screening oncologico
- OMS – WHO, Prisons and Health
- Roberta Villa, Prevenire non è guarire
