Auto-riflessioni necessarie seppur poco edificanti di un maschio etero
Nonostante i tanti casi simili che ormai da anni riempiono le pagine dei giornali di cronaca, il femminicidio di Giulia Cecchettin ha creato e sta creando un’ondata di indignazione e presa di coscienza senza precedenti in tutto il Paese.
Che la causa di ciò sia da imputare alla settimana di attesa che ha generato la vicenda, al fatto che Giulia a differenza di altre vittime fosse meno “inquisibile” da parte della stampa e della politica o perché le parole della sorella Elena, che ha scelto coraggiosamente di esporsi rifiutando di vivere il lutto in maniera privata, trasformandolo in una precisa accusa politica e riuscendo a portare nei salotti televisivi le parole delle piazze transfemministe, questo sinceramente non saprei dirlo.
Credo però che tutto questo imponga una riflessione, anzi un’auto-riflessione, sul ruolo degli uomini all’interno di una società patriarcale nella quale tuttə, indifferentemente da genere e orientamento sessuale, siamo immersi fino al collo e che inevitabilmente ci forma. Ma prendiamola larga.
Punto di partenza per un’auto-riflessione dovrebbe essere intanto il privilegio che ancora oggi, pur nella nostra teoricamente progressista società occidentale, è nascere uomini. Un privilegio così normalizzato che la maggior parte degli uomini fatica o rifiuta di riconoscerlo come tale, e che anche quando viene riconosciuto non può essere mai davvero compreso del tutto. Proprio perché, similmente a quando si parla di privilegi di etnia o di classe, non se ne vivono gli effetti discriminatori sulla propria pelle.
Non ho paura di essere violentato o ucciso quando cammino per strada da solo la notte, quando termino una relazione, quando mi vesto in un certo modo. Non mi sento particolarmente giudicato, o perlomeno non con lo stesso peso, per la mia condotta sessuale. Quando fa caldo e sono al mare o in montagna posso togliermi la maglietta o la camicia senza destare particolare scandalo. Non mi si chiede un’opinione solo su questioni che riguardano il mio genere, né ricevo la stessa sufficienza quando la esprimo. Non ricevo atteggiamenti protettivi non voluti, né accuse di isteria se ho un eccesso di rabbia.
Sono solo esempi macroscopici, ma potrei andare avanti ben oltre il breve spazio concessomi da un articolo di giornale, e ne dimenticherei sicuramente altri. Basterebbe chiedere a una donna per farsene un’idea. E qui arriviamo al secondo punto.
Non è che le rivendicazioni di Elena Cecchettin e delle piazze transfemministe siano una novità. Le donne esprimono il disagio che vivono quotidianamente da ben più tempo di quanto si creda, anzi a ben vedere proprio da sempre. “Preferirei stare tre volte presso lo scudo piuttosto che partorire una sola volta” diceva Medea. La verità è che ci siamo sempre rifiutati di ascoltare. Non solo per aperta ostilità e maschilismo, che ovviamente ci sono, ma anche perché tutto sommato quelle delle donne sono parole che danno fastidio, che implicherebbero se ascoltate un faticoso lavoro di decostruzione di noi stessi, che tutto sommato non abbiamo nessuna voglia di fare, un po’ per pigrizia ma soprattutto per paura.
Non che sia sempre tutto rose e fiori. Anche noi ci becchiamo la nostra bella dose di merda dal patriarcato, anche se sembriamo più interessati a difendere la prigione che ad abbatterla, come ergastolani ormai troppo spaventati da cosa potrebbe esserci là fuori.
Ci attacchiamo così disperatamente al modello di virilità che ci vuole forti e duri, punto di riferimento incrollabile per quelle creaturine deboli e ingenue che giudichiamo nel nostro intimo essere le donne, che ci figuriamo bisognose di protezione dal mondo, cattivo e pieno di lupi (sempre noi, ma altri da noi), che pensiamo di essere i soli naturalmente predisposti ad affrontare. Rifiutiamo strenuamente fragilità ed emotività, le nostre e quelle degli altri, al punto da giudicarle cose patetiche e, in quanto tali, “roba da donne”. E quando le donne si permettono di non essere deboli, di andare fuori dal controllo e dalle strutture che perpetriamo e imponiamo, a loro e a noi stessi, la cosa ci irrita, ci ferisce in quell’orgoglio fragile di maschi che abbiamo paura le donne espongano al mondo, facendoci finalmente apparire deboli come siamo. Perché ci dimostra che tutto sommato non siamo poi così indispensabili quanto pensavamo di essere. E allora reagiamo male, spesso molto male. Quanto è patetico tutto ciò?
Tutti gli uomini. Sì anche io, sì anche tu.
L’articolo poteva anche finire qui. Sarebbe comunque una riflessione decente sul patriarcato, magari pure apprezzata perché è un uomo a scriverla, a dire quelle cose che le donne dicono da sempre e per le quali non applaude nessuno. Ma non basta, non questa volta, neanche un po’.
Iniziare a decostruirsi non è facile, ma è il primo passo. Purtroppo però è anche solo il primo passo. Bisogna farne qualcuno in più.
Un po’ troppo facile condividere post e articoli femministi, leggersi un paio di libri di Michela Murgia, indossare un panuelo rosa e andare ai cortei di Non Una Di Meno, sperando che tanto basti a lavarci la coscienza e prenderci la targhetta di “maschio femminista” da sfoggiare per deresponsabilizzarci.
Tocca parlare, in maniera seria, anche della cultura dello stupro, altra parolaccia che le rivendicazioni femministe degli ultimi giorni sono riuscite a portare persino dentro i media di massa.
Non tutti gli uomini sono stupratori, non tutti gli uomini uccidono le donne. Lo sappiamo noi come lo sanno le donne, non hanno bisogno che glielo spieghiamo. Ma pure se non abbiamo stuprato o ucciso nessuna, pure in questo caso di questa cultura facciamo parte e la alimentiamo. Lo facciamo ogni volta che ci giriamo dall’altra parte davanti a un comportamento tossico o sessista di un altro uomo. Lo facciamo ogni volta che ridiamo o non controbattiamo alle battute sessiste perché in fondo “siamo tra maschi”. Lo facciamo ogni volta che trattiamo una donna come un pezzo di carne, o la inganniamo per soddisfare i nostri desideri. Lo facciamo persino da ragazzini, quando tentiamo così maniacalmente di toglierci il marchio infamante della verginità, altro sgradevole prodotto della cultura patriarcale, al punto da disinteressarci sia dell’altra persona che dei nostri desideri, tempi o bisogni, perché l’importante è levarsi lo stigma e apparire forti e vincenti. Non agli occhi delle donne si badi bene, ma a quelli degli altri uomini come noi. Perché il segreto di pulcinella è che ci importa molto più quello che pensano di noi gli altri uomini che quello che pensano le donne.
Questo è come si sviluppano nel quotidiano la cultura dello stupro e il patriarcato, questo è il motivo per cui sì, sono proprio tutti gli uomini, anche tu, anche io, perché se ci pensiamo bene in qualcuno di questi comportamenti, o in molti altri che qui non ho nemmeno nominato e dei quali a malapena ci rendiamo conto, ci possiamo riconoscere.
Non è particolarmente edificante pensarci, lo so. Ma forse è necessario partire da questo, dal riconoscere quante cose non abbiamo capito e quante ne abbiamo sbagliate. Sicuramente più utile che provare a difendere a spada tratta una mascolinità che diventa ogni giorno più indifendibile e che tutto sommato non fa stare bene nemmeno noi. Sicuramente più utile che sottolineare alle donne e alle piazze che oggi ci costringono davanti alle nostre responsabilità che non tutti gli uomini stuprano e uccidono, badando a difendere per l’ennesima volta solo e soltanto noi stessi.
Quello che queste donne e queste piazze ci stanno chiedendo non è di essere irreprensibili esempi di quella figura mitologica che è il “maschio femminista”. Lo sanno che non siamo perfetti, eccome se lo sanno, spesso meglio di quanto ammettiamo pure a noi stessi. Quello che ci stanno chiedendo è di metterci in dubbio, di riconoscere gli errori che inevitabilmente avremo fatto e i paradigmi dentro cui siamo immersi, provando a fare un vero sforzo per migliorare. Se ci pensiamo bene non è nemmeno chiedere molto.
Mimì