Adelmo Cervi in sala Santa Marta, la testimonianza del figlio di Aldo, uno dei sette fratelli Cervi
Adelmo Cervi è un uomo di bassa statura e con la barba bianca, indossa scarponi da montagna, pantaloni sportivi rossi e felpa rossa con stampato il volto di Che Guevara. Un Babbo Natale comunista, senza berretto e con lo sguardo sereno e fiammeggiante di ricordi e di ideali. Il presidente dell’A.N.P.I., Mario Beiletti, l’ha già presentato da qualche minuto quando lui entra in Sala Santa Marta, leggermente in ritardo, tranquillo, informale, disinvolto. E’ stupito di trovare così tanta gente ad accoglierlo. Da due anni gira per l’Italia e per l’Europa, per far conoscere il suo libro, la sua storia.
Non si sente uno scrittore Adelmo. Ha semplicemente raccontato per scritto la storia della sua famiglia, che inevitabilmente è anche quella dell’Italia fascista e antifascista; una storia “di sofferenza, di lotta e di orgoglio”. A v e v a pochi mesi quando suo padre, Aldo, fu catturato dai fascisti insieme ai suoi sei fratelli e poi ucciso.
Adelmo è cresciuto nel ricordo di quel mito: suo padre, suo nonno, i suoi zii; una famiglia di contadini, cattolica e socialista, che vuole emanciparsi dalla propria condizione e che scopre di poter lavorare alla costruzione di un mondo nuovo e più giusto. Adelmo, con le sue parole e il suo racconto, apre la porta della sua vita e ci fa entrare nel suo mondo, nella sua famiglia, tra i ricordi e le foto del suo passato. Tra tutte, due fotografie: la prima ritrae la famiglia Cervi prima della guerra. Al centro, seduti, Alcide e Genoveffa, circondati dai figli, sette maschi e due femmine. Sguardi sereni, sorrisi appena accennati.
La seconda, scattata due anni dopo l’uccisione dei figli di Alcide, ritrae quattro donne vestite a lutto, quattro vedove; undici bambini, tutti orfani di padre, due seduti sulle ginocchia del nonno. Uno di loro è Adelmo. Un solo uomo, il nonno, Alcide, portatore degli ideali di libertà e giustizia che hanno condotto alla morte i suoi figli, testimone di una storia familiare da tramandare ai nipoti, perché quei valori restino vivi per sempre. Sguardi tristi che raccontano quello che non si può vedere: le morti e la sofferenza, l’isolamento della famiglia Cervi dopo l’uccisione dei sette fratelli, gli incendi della cascina, il dolore inenarrabile di una madre, l’assenza e la mancanza, la privazione ingiusta di affetti e di cure.
Le parole di Adelmo sono per noi, per tutti noi. Per continuare a raccontare, anche ai ragazzi di oggi, che spesso non conoscono la nostra storia, che non sanno, dice Adelmo, perché si festeggi il 25 aprile o che cosa dica la Costituzione.
Perché impariamo a dire “BASTA!”, quando la misura è colma, senza domandarci che cosa accadrà dopo, come fecero i fratelli Cervi. Perché ognuno riesca a decidere e scegliere da che parte stare, ad essere “partigiano”, anche oggi, soprattutto oggi.
E’questo l’appello di Adelmo. E quando Amerigo Viglielmo, seduto tra il pubblico, nella sala, si alza in piedi e intona “Bella ciao!”, subito seguito e accompagnato da tutti i presenti, è chiaro per tutti il senso e il valore di quelle parole.
Il senso e il valore di quella storia, che, oggi più che mai, sentiamo NOSTRA.
Giovanna Mazza | 11/05/2016