Per una giustizia che ripara

Agnese Moro, Adriana Faranda e Padre Guido Bertagna saranno giovedì 24 novembre alle ore 21 all’auditorium Mozart di Ivrea

Agnese Moro, oggi giornalista e pubblicista, aveva solo 25 anni quando il padre, Aldo Moro, venne rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. Adriana Faranda, ex brigatista, fu una delle persone responsabili dell’organizzazione del sequestro.

Agnese Moro e Adriana Faranda

E’ un importante incontro quello organizzato dalla Associazione di Volontari Penitenziari Tino Beiletti, in collaborazione con la Fraternità di Lessolo, prima per le scuole cittadine e in serata per tutta la cittadinanza, all’interno di percorso di approfondimento e divulgazione del concetto di Giustizia riparativa.
Un incontro pubblico che rende noto un lungo percorso di incontro privato, che nasce 15 anni fa per iniziativa di padre Guido Bertagna, dell’ordine dei gesuiti, che invia una lettera rivolta ad alcune persone, sia vittime sia membri della lotta armata, con cui dalla fine degli anni Novanta si erano stretti rapporti di ascolto e vicinanza. “Serviva qualcosa in più dell’incontro individuale -racconta- così abbiamo rivolto a ognuno di loro un invito a un incontro collettivo per la”riparazione dell’irreparabile”.
Nella lettera intitolata “Spazio per una memoria condivisa” gli autori scrivevano che ritenevano “importante tentare di comporre un racconto, una polifonia, una narrazione che contenesse la pluralità delle memorie nella consapevolezza che soltanto parole fragili possono mettere in relazione, senza nascondere, distanze ineliminabili”. “Solo una volta che il gruppo ha cominciato a trovarsi -scrive Bertagna- ci siamo resi conto che il titolo era sbagliato: non esiste uno spazio per una memoria condivisa ma esiste una condivisione delle memorie. La verità dei vissuti non corrisponde necessariamente alla verità dei fatti e una giustizia che vuole ricostruire le relazioni deve tenerne conto. Quello che è accaduto è accaduto e non va in nessun modo minimizzato o dimenticato ma la condivisione delle memorie porta a cambiare il senso dei fatti che può arricchirsi, spostare il baricentro di quello che vale e modificare la risonanza dei vissuti. Quando si restituisce la parola al dolore qualcosa accade”.
E qualcosa, a partire da quella lettera, è successo.
Il gruppo comincia a incontrarsi regolarmente, per otto anni, un’assemblea al mese, due incontri residenziali all’anno e una settimana di convivenza in una casa in montagna nel periodo estivo, con l’aiuto di tre mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato.
“Nel carcere il problema è sanare la colpa, quando sei in un percorso di giustizia riparativa lo sguardo non è più sul passato”, racconta Faranda, che ha scontato oltre 15 anni di pena dal 1979 al 1984. “Il problema è la responsabilità che ti assumi non rispetto alla colpa, che è in qualche misura sterile, ma nei confronti della persona che incontri, con cui crei una relazione. È un percorso che libera perché guarda al futuro”. 
“Quando ho ricevuto la proposta di padre Guido inizialmente ho rifiutato, spiega Moro, ma mi sono resa conto che lui mi veniva incontro per qualcosa di diverso. Si era accorto del mio dolore e in trentuno anni nessuno l’aveva mai fatto”. “Alla fine dei processi ero soddisfatta perché quelle condanne stabilivano che la violenza non è uno strumento legittimo per affermare un ideale ma dal punto di vista personale non avevano forma risarcitoria. Io non stavo meglio sapendo che un altro soffriva”. Sono quelle che Moro definisce le “scorie radioattive di un’ingiustizia piccola o grande che sia” che restano addosso sia alla vittima sia all’autore del reato. “Tre parole possono descriverle. L’immobilità dovuta al fatto che quel gesto, l’omicidio di mio padre, non è iniziato e finito in quel momento perché nella mente delle persone che l’hanno agito o subìto si ripete ogni giorno, in una sorta di dittatura del passato. Poi l’isolamento, perché ogni giorno sprofondi nei sentimenti di rancore, odio, assenza, dolore e rabbia. Sei a contatto con la parte non bella dell’animo umano. E poi la disumanizzazione, un meccanismo infernale che fa sì che una persona non viene più considerata una persona. Ma una funzione, un simbolo, una divisa. Chi l’ha disumanizzato, chi ha compiuto il gesto si considera una cosa. Ma anche io consideravo loro come mostri: indossavo la maschera della vittima, che in quanto tale può solo odiare”.
Il racconto del percorso si trova in “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore, 2015), che sarà in vendita in sala, a cura della Libreria Mondadori.
E’ una ricerca che va conosciuta e raccontata, e per questo vengono organizzati incontri pubblici, come quello di Ivrea.

L’unica nota negativa viene, spiace dirlo, dalla istituzione locale: il Comune di Ivrea ha rifiutato, dopo averne discusso in Giunta, il patrocinio del Comune stesso e l’uso del Teatro Giacosa, con la motivazione di non voler dare spazio alle parole di una ex terrorista e dimostrando di non aver affatto compreso il senso dell’incontro. La decisione è finita naturalmente su tutti giornali, visto anche che analoghi incontri sono avvenuti in molte città  italiane, da Catania a Biella, senza problemi. Una figura che Ivrea poteva risparmiarsi.

Francesco Curzio

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