Le panchine di Piazza di città tengono banco suscitando inevitabili commenti e facili ironie circa il loro aspetto e la loro collocazione
Prevalentemente è nel mirino la loro funerea fisionomia che equipara il cuore cittadino alla dependance di un cimitero oppure che suggerisce una più idonea sistemazione in qualche sepolcrale ala del Museo egizio di Torino. Panchine come bare, con effetto mortuario accentuato dall’inserimento di piccole fioriere, o come cupi sarcofaghi, panchine come elementi stonati e distopici rispetto al contesto. Personalmente le trovo brutte, non ergonomiche e, tanto per infierire, refrattarie al comfort anche per quel che riguarda la temperatura, risultando gelide nei giorni freddi e scottanti in quelli caldi.
Naturalmente, come ogni argomento di natura incalzante, i pro e i contro si affollano nel gran calderone delle discussioni. Se, in generale, l’idea di bruttezza sembra prevalere, ecco che non manca chi non tarda a ricordarci che a lui e a tanti altri, invece, le panchine piacciono o non disturbano affatto e che il parere di alcuni (quasi sempre una minoranza, per carità, rispetto alla totalità dei bravi cittadini) non deve mai essere confuso con quello di tutti.
Se per qualcuno poi le panchine sono scomode, c’è subito qualcun altro che risponde di aver visto META’ degli abitanti di Ivrea seduta, il pomeriggio della domenica, sulle bare, con tanto di volti sorridenti e nessun segno di disagio evidente. Per confortare poi l’idea che tutto sia relativo, i pro e i contro si esercitano, dalle opposte posizioni, interrogandosi sull’origine oggettiva o soggettiva della bellezza delle panchine, in questo caso allargando all’infinito il campo delle dissertazioni fini a se stesse.
Poi c’è chi si incazza perché tutta questa discussione sulle panchine l’ha stufato rischiando di sottrarlo, ahimé, alle attività con cui, normalmente, tiene occupata la sua intelligenza. In questo caso, allora, le panchine diventano futili distrazioni di cui sono vittime probabili soprattutto i panchinari sfaccendati e poco inclini al ragionamento articolato.
Poi, ovviamente, c’è anche chi le considera inguardabili, ma in fondo del tutto tollerabili rispetto ad altri esempi di scempio cittadino a impatto negativo decisamente più alto. In questo caso, lo scempio maggiore attenua o cancella quello minore con buona pace di tutti e dello “status quo” in generale.
Poi c’è chi sottilmente sottolinea come la bruttezza, spesso, sia soltanto apparente e temporanea, un effetto iniziale che si stempera nel tempo, quando l’opera, non immediatamente accessibile, date le nostre incapacità di comprenderla, si rivela arte e architettura pregiata. In questo caso, non resta che aspettare i tempi in cui, maturando ed evolvendosi la nostra percezione del bello, scopriremo, nelle bare, illuminanti esempi di arredo urbano d’avanguardia.
Poi, ci sono quelli che sono indifferenti alle panchine o perchè seriamente assillati, nella vita, da gravi problematiche oppure perché disavvezzi a operare un qualsivoglia tipo di distinzione. Questi ultimissimi sembrano veleggiare ben al di sopra di ogni categoria, lo sguardo perso nel grigiore della visione uniforme dove una zona industriale, come a esempio quella di Burolo o di Lessolo, finisce di assumere lo stesso valore del paesaggio che ha distrutto.
Infine ci sono quelli che esaltano il valore funzionale delle panchine, non inteso come comodità della fruizione, ma come risparmio sui costi di manutenzione. Questa considerazione dominante trova riscontro in quelle che, a tutti gli effetti, sembrano essere le intenzioni degli amministratori. Per bandire interventi di periodica manutenzione, si comprano panchine in pietra lugubre anziché in legno, così come piazza Freguglia o la Passerella sulla Dora sono state dotate di elementi in linea con la moda “Rust style”, ovvero quella che propugna il fascino senza tempo della ruggine. Sempre, in omaggio alla non manutenzione, l’erba, nei cassoni ideati dagli architetti di Piazza Freguglia, è stata realizzata in plastica (per fortuna verde, bisogna accontentarsi) estendendo l’idea che, al pari delle panchine, in città circoli una predilezione per tutto ciò che è o sembri fasullo e cadaverico.
Un altro aspetto, che celebra la funzionalità delle bare in Piazza di città, è quello per cui esse ostacolano brillantemente (si fa per dire) i parcheggi abusivi delle auto. Lo stratagemma consente così di risparmiare il lavoro del personale deputato alla vigilanza e alle contravvenzioni.
La funzione specifica delle panchine rischia di diventare, dunque, nella percezione generale, quella di arredo atto a inibire la sosta vietata così come, facendo un altro esempio, i dossi di plastica, nei punti pericolosi della strada, diventano, nel cervello dell’automobilista, il freno per evitare danni alla macchina piuttosto che ai pedoni di passaggio. Cioè, io rallento non perchè è consigliabile la prudenza, ma perchè temo di scassarmi la macchina! Un mio conoscente, al corrente di questa differenza, ogni volta che incontra un dosso lo affronta a tutta velocità per protesta contro chi rallenta solo per salvarsi la macchina. Siamo addirittura allo stravolgimento in negativo del negativo, a dimostrare di quanto prosperino le civiche virtù nel nostro paese.
Ah già, scusate, non si può fare di ogni erba un fascio (uffa!).
Così la realtà sembra trasfigurare continuamente nel peggio, mentre il dibattito si arena nel pantano delle chiacchiere che, sovente, producono l’inerzia dei rimedi.
E se le panchine, detrattori o non detrattori, dovessero prendere sul serio la strada del cimitero, credo proprio che nessuno le rimpiangerà.
Pierangelo Scala