Il presidio della Pace, che si tiene settimanalmente da due anni e mezzo davanti al municipio di Piazza di città, sabato 14 settembre ha mutato itinerario e i manifestanti si sono trovati in via Dora Baltea, davanti all’ingresso dello stadio della canoa, super affollato per il concomitante svolgimento dei campionati mondiali di questo sport.
Così si è creata una intersezione dei due eventi, mescolando immagini di persone, cartelli e bandiere sia come simboli del tifo quanto dell’impegno e della protesta contro la guerra, anzi contro le guerre che affliggono, per durata e crudeltà, popolazioni sottomesse e innocenti. Siamo tutti al corrente di quanto avvenga a Gaza e in Ucraina, dove si allineano cadaveri e disperazione. Le vittime palestinesi hanno toccato, nel numero, cifre da ecatombe raggiungendo le 40.000 vittime, di cui gran parte sono donne e bambini. Lo sterminio in atto non è soltanto dovuto al fuoco delle armi ma anche alle conseguenze che la guerra produce sul piano della fame e delle malattie. Durante la manifestazione di sabato, qualcuno, utilizzando probabilmente la tempestività di comunicazione, offerta da un gruppo social locale, si è chiesto cosa c’entrassero i pacifisti con gli atleti in tuta attillata e pagaia. I pacifisti, a quanto mi è stato riferito, sono stati segnalati come gruppo minoritario di “smandrappati”, un termine che credevo derivato da qualche amena libertà etimologica di natura popolare. Invece il sostantivo esiste, eccome, e alberga di diritto nel dizionario della nostra lingua. Il significato è illustrato da una serie di sinonimi, quali “scamiciato”, “malmesso”, “sfinito”, “malridotto” che chiariscono meglio il punto di vista del signore refrattario a effettuare collegamenti di senso tra canoisti e pacifisti. A pensarci bene, davanti allo stadio della canoa, c’erano due testimoni di Geova, con tanto di compendi biblici, che potevano stimolare la stessa domanda: “Cosa c’entrano, infatti, i due testimoni, al pari dei pacifisti lì presenti, con l’evento sportivo in atto sulla Dora?”. Riflettendoci un attimo si poteva addivenire a una risposta di tipo comune. Entrambi erano lì, al cospetto di un pubblico più numeroso, per ottenere una maggiore visibilità e attenzione. Per intercettare, appunto, uno sguardo, una parola, un semplice saluto, un segno di consenso e interesse in più per le problematiche tragiche della guerra oppure per i destini ultimi della prospettiva post mortem, declinata, in questo caso, secondo le convinzioni dei testimoni di Geova.
Intanto l’occhio acuto di un fotografo immortalava una canoa con l’adesivo di una piccola bandiera palestinese sulla coda e anche in questo miracolo di inquadratura si leggeva il connubio tra chi manifesta in gruppo per la pace e chi la invoca con le armi pacifiche dello sport.
Canoisti, pacifisti, ricercatori di verità ultime, pubblico distratto o indifferente, critici del movimento pacifista c’entrano eccome, volenti o nolenti che siano. L’anelito alla pace dovrebbe connettere tutti, smuovere gli animi. Se non posso fermare una guerra, almeno vado a situarmi nel segno di un desiderio di pace, mi metto sotto la bandiera dell’arcobaleno, così anche solo per non rassegnarmi all’idea che il mondo sia ostaggio di una belligerante contrapposizione senza soluzione di continuità. Esiste un’altra logica che supera i confini tra il botta e risposta di chi si uccide a vicenda. E’ difficile da trovare, difficile da perseguire ma non impossibile. Se dipendesse da me cucirei insieme la bandiera palestinese e quella israeliana in un nuovo auspicante vessillo. Una nuova decalcomania più grande sulla coda di ogni canoa, un simbolo che a tratti sembra annegare nella foga dell’onda ma che poi, indomito, riemerge nel gorgo ribollente del lucore fluviale come forza di pace ambita, voluta e condivisa. La pace perduta deve essere riconquistata con armi diverse da quelle che uccidono, la pace deve prevalere sul desiderio di prevaricazione, la guerra deve risultare perdente anche per chi l’ha vinta. C’è chi ha speso e trovato, nel progetto di pace, parole diventate immortali. A volte le possiamo udire scandite durante le manifestazioni dei pacifisti. Parole che aprono varchi alla possibilità della pace o almeno al pensiero che non abdica alle soluzioni del dialogo. Anche solo per sentire e ricordare queste parole, vale la pena di uscire di casa, vale la pena di partecipare, per quanto sognatori o smandrappati si venga irrisi o giudicati.
Pierangelo Scala