Oro rosso. Rosso sangue

E’ poco probabile, nel freddo gioco delle probabilità, che due furgoni bianchi si scontrino con due TIR che trasportano entrambi pomodori nelle piane del Foggiano a soli due giorni di distanza tra loro, e (ironia della sorte) a soli due giorni dalla commemorazione (qualcuno la ricorda?) della strage di 136 operai migranti italiani morti nella miniera di Marcinelle, in Belgio.

Poco probabile, ma possibile. Quattro lavoratori migranti africani viaggiavano nel primo furgone, morti. Dodici lavoratori migranti africani viaggiavano nel secondo furgone, morti. E altri feriti.
Contemporaneamente un altro incidente a Bologna. Altro TIR, altro autista con turni massacranti sotto il solleone. Un colpo di sonno, forse. Lo schianto, il camion trasporta un carico di GPL, una bomba. Un’altra bomba a Bologna, che ha appena commemorato la strage del 2 agosto. Esplode in mezzo all’autostrada, come dire in mezzo a Bologna. Ricorda l’effetto di un missile su Belgrado. Un morto, italiano, decine di feriti.
L’Italia si sveglia dal torpore, ma non più di tanto. I bagnanti sono sulla spiaggia e non si muovono. Qualche politico deve farsi vedere, è una questione di immagine. La farsa dell’ipocrisia si mette in movimento. I ministri coinvolti (lavoro, trasporti, agricoltura) non si muovono. Il Presidente del Consiglio, mosso da pietà, parte per Bologna per una visita ai feriti tutti ricoverati in ospedale. Foto con stretta di mano con immancabile agente di Polizia di Stato “eroe”. Stile film di Eastwood. Poi, dopo il conforto agli italiani, muove verso Foggia. Con i tempi dovuti poiché i dodici morti del secondo incidente del Foggiano sono ancora abbandonati sulla strada. Gli ospedali comunicano che non hanno posto. Orrore da apartheid sudafricano: se fossero stati bianchi avrebbero trovato il posto? Deve intervenire il Procuratore della Repubblica di Foggia “personalmente” per trovare un posto ai braccianti abbandonati sull’asfalto e coperti da un sudario intriso di sangue. Come un fulmine giunge anche il Ministro dell’Interno, con immancabile foto in stretta di mano (e sorriso tirato) con un africano.
I vertici dello Stato compiangono i morti ed enunciano la banalità che non avremmo voluto sentire. La lotta al caporalato. E’ la banalità che si racconta quando non si vuole raccontare la verità e colpire il cuore del problema, la ricchezza in doppiopetto dell’agri-business e della grande distribuzione. Si, proprio i pomodori in offerta al supermercato che raggiungono la vostra tavola. Loro fanno il prezzo, produttori e braccianti sono l’anello della filiera sul quale limare il costo e aumentare il profitto. Tre euro all’ora o un euro al quintale di pomodori raccolti. Proviamo a raccontare questa storia.

Il pomodoro “made in Italy” e le stragi di braccianti in questi giorni sulle strade del Foggiano

Lunga e diritta correva la strada provinciale 105 tra Ascoli Atriano e Castelluccio dei Sauri (Foggia). All’ombra dei 34 gradi di questa calda mezza estate un furgone bianco viaggiava tranquillo nella sua corsia di marcia, con la regolarità quotidiana che lo contraddistingueva. Mattina e pomeriggio. L’autista conosceva la strada, lunghi rettilinei con monotone aride distese sui due lati. Il paesaggio del caldo meridione foggiano. Faceva il suo lavoro, come molti altri furgoni che portano gli africani a lavorare nei campi. Monotone giornate a raccogliere pomodori per intermediari lungo una filiera che porta alle industrie conserviere. Ai negozi e ai supermercati, in transito verso le tavole delle famiglie, o le affollate pizzerie delle località turistiche. E ancor più fuori Italia, nell’Europa centrale come nei Paesi africani. L’autista era concentrato sulla guida, conosceva la strada e non aveva tempo da perdere. E’ sempre un rischio caricare uomini invece che casse di pomodori, un controllo, la stradale, insomma meglio chiudere la giornata e domani avrebbe iniziato un altro giro. Dopo un buon caffè. Non si avvide quasi di quell’enorme camion blu che portava tonnellate di pomodori, viaggiando in corsia contraria. Non ebbe neppure il tempo di cercare di evitare lo scontro frontale, venti tonnellate di pomodori lanciate come una beffarda provocazione verso un piccolo furgone con nove uomini a bordo. Fu l’unico a provare terrore, i lavoratori africani non ebbero diritto neppure a quello. Il furgone esplose, aperto come una scatola di sardine, gli uomini lanciati come pupazzi in mezzo alla strada a mescolare il proprio sangue con il rosso della salsa di pomodoro che si andava spargendo sull’asfalto rovente. Come fosse la costruzione di una scenografia cinematografica, uomini spegnevano la propria vita, il proprio sogno di vita, nel sangue dei pomodori che fino a un’ora prima avevano raccolto. Tra qualche giorno un turista seduto in un ristorante sul mare degusterà un ottimo piatto di spaghetti al pomodoro, commentando sadicamente la presenza di qualche africano sulla spiaggia. In quel momento potrà toccargli in sorte, nel piatto, uno dei pomodori raccolti dal lavoratore morto, o uno dei pomodori del camion che ha ucciso il lavoratore. Non proverà differenza di gusto, né di colore. Sarà sempre e solo rosso. Rosso sangue.

La pacchia è finita

E’ finita per sempre per i lavoratori immigrati africani che terminavano la giornata di raccolta dei pomodori nella civile repubblica italiana fresca di approvazione parlamentare del Decreto Dignità del lavoro. Non ne beneficeranno, forse non ne avrebbero beneficiato comunque. Un lungo viaggio dalle regioni sub sahariane fino al ridente paesino del foggiano dove la pacchia è finita. La loro esperienza di braccianti, di ricerca di una vita migliore si conclude sull’asfalto dopo un incidente tra un furgone per carico merci (conteneva esseri umani, per alcuni solo forza lavoro, risorsa umana, merce) e un TIR che, nemesi della storia della loro vita, trasportava proprio pomodori, che sono eufemisticamente definiti “l’oro rosso di Capitanata”. Chissà se, l’autista del TIR era a sua volta stanco dei viaggi e dei turni massacranti, immigrato o non che fosse, si salverà. Forse si salverà dal punto di vista medico, ma non dalle ferite e dalla legge. Una legge di uno Stato assente fino a ieri, che additerà il camionista come unico colpevole. Omicidio colposo nella migliore delle ipotesi. Uccisi involontariamente braccianti di identità e nazionalità sconosciuta, non italiani, forse arabi, forse arabi neri, forse neri del Nord Africa non arabi. Sarà un processo contro ignoti. Nelle parole di esponenti del Governo italiano in carica, nelle menti rese insensibili di parte del popolo italiano, sarà un processo inutile e delegittimato poiché la responsabilità prima sarebbe da additarsi ai braccianti immigrati illegalmente nel Belpaese. Il capro espiatorio saranno i “caporali”, che operano sotto gli occhi di tutti in pieno giorno. Le leggi esistono, basti all’articolo 603-bis (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) del Codice Penale e alla Legge 199 del 2016. Stiamo parlando di un fenomeno che coinvolge 400mila lavoratori in tutta Italia e che i dai ISTAT dicono in crescita del 23% negli ultimi anni. Un fenomeno invisibile, ma solo per i ministri. Ora i morti, il cordoglio, le facce serie e le promesse di pugno di ferro contro caporali, malavita, mafia. Non una parola per le industrie che acquistano i pomodori alle aste al ribasso, non una parola del perché tutto questo possa avvenire alla luce del sole senza che il Ministro del Lavoro e dell’Agricoltura si guardino allo specchio. O forse si, poiché entrambi non sembrano avere nei loro curricola alcuna conoscenza o concezione del lavoro della campagna. E dunque non risultano turbati dall’esistenza di moltitudini di giovani e meno giovani, italiani e non italiani, cassintegrati e pensionati che utilizzano la campagna per racimolare i pochi soldi che servono a sopravvivere. E poi, esisterebbero immigrati Regolari che vengono in Italia armati di un contratto di lavoro come bracciante che raccoglie i pomodori per 12 ore a una paga giornaliera di 25€, si reca sul luogo di lavoro in una furgone trasporto merci della sua età e dorme in baraccopoli che nulla hanno da invidiare a quelle lasciate nel Paese di origine? Ceesay Aladje, 25enne del Gambia e Balde Amadou, 20enne della Nuova Guinea sono i due giovani per quali si è riusciti a ricostruire identità, età e nazionalità. Per gli altri si vedrà, africani, pelle nera.
Per chi lavoravano i ragazzi africani che, giovanissimi, raggiunsero in Italia alla ricerca della “pacchia” di vita oggi sobriamente stroncata da parlamentari e ministri che di lavoro (nei campi) ne hanno conosciuto pochino pochino? A fronte di laute retribuzioni pubbliche, i ministri del lavoro e dell’agricoltura non si sono scomodati per raggiungere lo storico distretto di Capitana, vedere i luoghi, capire, parlare e raccontarci l’elogio della globalizzazione alimentare. Avrebbero potuto porgere le condoglianze alle famiglie dei lavoratori morti (già, ma non conoscono i nomi e dunque risalire ai parenti è difficile) o stringere la mano ai sopravvissuti (sono in ospedale in condizioni critiche) e poi verificare di persona. Attendere la mattina in una piazza e vedere i caporali e i lavoratori iniziare la giornata. Andare nei campi e osservare il lavoro, le schiene spezzate da peso o sudore. O, addirittura, indagare sui veri datori di lavoro di questi lavoratori, ammesso che per lo Stato italiano fossero registrati come lavoratori. Comunque sia, i pomodori li avevano raccolti e da qualche parte sarebbero andati. E’ sufficiente andare in un campo e parlare con il proprietario, per chiedere a chi vende il prodotto. Incrociare i contratti di lavoro (se esistono) per la quantità di prodotto raccolto e il gioco è fatto. Il sistema è alla luce del sole, come le schiene sudate. L’illegalità è alla luce del sole, per chi vuole vederla.

Lo xitomati degli Inca e degli Aztechi: il pomodoro

Il pomodoro. Una delle certezze di quell’Italia del Sud, ex Regno delle Due Sicilie tolto dal feudalesimo amministrativo da Napoleone, quei 7000Kmq di terra fertile e meravigliosa, è il pomodoro. Il frutto di questa pianta di origine americana è un simbolo dell’Italia. Il pomodoro è originario del Messico e del Perù, un chiaro esempio di immigrazione clandestina datata 1540 e con colpevole il criminale spagnolo Hernán Cortés, che distrusse il regno azteco come ringraziamento. I popoli Inca e Aztechi lo chiamavano xitomatl (tomato, in inglese), cioè “pianta con frutto globoso, polpa succosa e numerosi semi”. I pomodori erano apprezzati da Luigi XIV di Francia, il Re Sole, che a Versailles faceva coltiva quella pianta esotica che produceva fiorellini gialli e le piccoli frutti arancio pallido. La tristezza di ogni orticoltore moderno. Le successive selezioni genetiche e lo spostamento dell’areale di produzione all’area Mediterranea portò nei secoli al raggiungimento di 320 varietà solo in Italia e alla creazione di frutti rossi e carnosi. Nel XVI secolo ci pensò il pioniere della botanica italica Pietro Andrea Mattioli a dargli un nome volgare: pomo d’oro (in origine fu mala aurea). Coltivazione relativamente facile, raccolti abbondanti e diversità di utilizzo in cucina e a tavola. E tutti a mangiare pomodori e salse di pomodoro. E qui entra in gioco il capitale, la meccanizzazione, lo sfruttamento, la lavorazione, la finanza. E i morti sul lavoro. O dopo il lavoro, tornando ai proprio quartieri stremati su un furgone chiuso senza finestre, lamiera arroventata nella torrida estate foggiana.

AR sta per andata e ritorno ma anche per Antonino Russo

AR sta per andata e ritorno. Immigrato viene, fa la stagione e va. Andata e ritorno. E io mangio i pomodori, faccio il sugo per la pasta o esco con gli amici a mangiare la pizza. Questo fino all’Italia centrale. Nel Sud Italia AR significa qualcosa di più, significa vita e morte dei pomodori. E’ sinonimo di lavorazione del pomodoro. AR sta per Antonino Russo, nato a Sant’Antonio Abate e morto nel 2014 a Napoli all’età di 84 anni. AR entra nel mondo del pomodoro del Sud Italia nel 1964, con la fondazione dell’industria conserviera dal nome significativo di La Gotica. All’inizio degli anni Settanta viene costruito lo stabilimento Ipa a Sant’Antonio Abate. Nel 1979, poi, La Gotica viene trasferita alla Conserviera Sud S.r.l.. Nel 1983 acquista un’azienda in chiusura e fonda La Perla Conserve. Negli stessi anni rileva un’azienda dalle partecipazioni statali trasformandola nella Velibox, uno scatolificio moderno. Nel 2000 nasce il gruppo AR-Industrie Alimentari Spa, in cui confluiscono le società Ipa, Conserviera Sud e La Perla Conserve. Nel 2001 Russo rileva dalla Unilever il marchio di conserve Napolina, per 12 milioni di sterline. Vende, quindi, il 51% della quota del marchio alla Princes Limited, colosso inglese che fa capo ai giapponesi di Mitsubishi, con cui già nel 1970 Russo aveva sottoscritto un accordo commerciale per la distribuzione dei suoi prodotti in Gran Bretagna. Il marchio con cui vengono venduti pomodoro, paste alimentari, olio d’oliva e conserve, fattura circa 120 milioni di sterline e ha il 30 per cento della quota al dettaglio della Gran Bretagna. Nel 2002, i partner storici del gruppo AR, gli inglesi della Princes Ltd, acquisiranno una partecipazione del 7% del capitale dell’AR, avviando quella che sarà la vera svolta del gruppo. Nel 2007, Antonino Russo realizza “l’investimento della sua vita”: quasi 110 milioni di euro, in quattro anni, per costruire “lo stabilimento produttivo più grande in Europa per la trasformazione del pomodoro”, quello di Incoronata (Foggia). Con una superficie di 500mila metri quadrati, di cui100mila coperti, lo stabilimento è dotato di impianti produttivi che consentono la trasformazione di circa 400mila tonnellate di pomodoro e di impianti per la produzione di scatole e confezionamento. E’ un passaggio epocale per il Sud Italia. La filiera del pomodoro in scatola non è più legata alla costa tirrenica della Campania, ma si muove verso l’Adriatico. E’ un mondo intero che si espande, il pomodoro diviene una produzione interregionale su scala industriale internazionale. Nel 2012 Antonino Russo firma un accordo con Mitsubishi Corporation: al gruppo giapponese va il 51% della NewCo Pia Princes Industrie Alimentari, che avrà la proprietà dello stabilimento di Foggia e la sede legale e amministrativa ad Angri. La Princes è controllata, da oltre 30 anni, dalla Mitsubishi corporation: in questo periodo ha realizzato 22 acquisizioni, dispone di 11 stabilimenti, fattura 1,6 miliardi, di cui metà con marchi propri, e si colloca nel gotha delle società europee a maggiore crescita. AR Industrie Alimentari conserverà il controllo di tutti gli altri stabilimenti italiani del gruppo (Conserviera, Ipa e La Perla), che produrranno interamente per Princes Industrie Alimentari. Princes era già presente da 10 anni nell’azionariato di Ar Alimentari con una quota del 7% ma nei giorni scorsi ha siglato un accordo che le permette di salire al 51% per cento. Ar Alimentari: circa 300 milioni di fatturato, con stabilimenti in Campania e in Puglia a Borgo Incoronata, a due passi da Foggia: solo il 20% delle vendite del gruppo è realizzato in Italia, il resto in Inghilterra, Germania, Francia e Africa. AR raccontò in un’intervista: «Non avevo soldi, né terra. Mia madre possedeva solo 6mila metri di terreno e dopo molte insistenze, perché si preoccupava di cosa avrebbe lasciato agli altri figli, me ne cedette 2mila per iniziare. Ecco, tutto è nato da lì. E oggi, che ho quasi 1 milione di metri quadrati di suolo produttivo o commerciale, quasi mi viene da ridere. Si può dire che sono cresciuto di 20mila metri quadrati l’anno».

La globalizzazione alimentare mal si coniuga con il Made in Italy

Terra italica, sementi di multinazionali, lavoratori extracomunitari, fabbriche e capitali stranieri, consumatori tedeschi. Per capire come funziona, un esempio: la multinazionale agro farmaceutica Syngenta (Svizzera, acquisita nel 2017 dalla Chem China e nata dalla Novartis, che vendette nel 2015 il settore vaccini alla Glaxo, combinazione nel periodo del governo Renzi e della creazione di uno stabilimento in Toscana e beneficiare del decreto per i vaccini ai bambini), propone all’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali) le varietà di pomodoro da industria Suomy e Miceno, insieme ai fitofarmaci da utilizzare (Karate Zeon, Ampligo, Affirm, Primial WG): la filiera è così decisa a monte. Varietà, gusto, forma e dimensione del frutto, tempi di semina, cicli di produzione, modalità di raccolta e lavorazione, prezzo. Non è proprio il Made in Italy che tutela la biodiversità del cibo italiano. Per mettere un poco di pomodoro sulla pastasciutta il consumatore italiano deve mettere in gioco svizzeri, cinesi, inglesi, giapponesi e un lavoratore immigrato della Guinea. Nel Sud Italia ci sono un centinaio di aziende di lavorazione del pomodoro, ma meno di dieci fatturano il 50% del prodotto dei campi. L’accordo 2018 per la produzione di pomodoro nel Centro-Sud Italia è stato fissato in 87€/tonnellata per la varietà tonda e 97€/ton per la varietà lunga. Tradotto significa 0.087€/Kg, altrimenti detto 8.7cent/Kg. Il prezzo reale pagato alla tonnellata in nero dei campi di Capitanata dove lavoravano i ragazzi morti rimarrà un mistero, salvo che il prezzo pagato è sicuramente inferiore. Facendo i conti possiamo dedurre che per guadagnare 87€ (lavoratore alla raccolta e gestore dell’organizzazione e della compravendita) bisogna raccogliere 1000Kg. Sono 100Kg all’ora per dieci ore senza sosta, 1.66Kg al minuto inclusi i tempi di carico, scarico e spostamento.

Migranti e Mitsubishi

I ragazzi che lasciavano i ghetti e le bidonvilles (città di bidoni e lamiere, bidon – ville) dell’Africa occidentale e migravano in Italia non sapevano che un giorno avrebbero lavorato per la Mitsubishi Corporation. Se lo avessero saputo avrebbero immediatamente scritto a casa per dare la notizia ai familiari, parenti e amici, al villaggio. Le voci in Africa corrono veloci e il tam-tam distorce e informazioni iniziali. In Guinea Bissau si sarebbe sparsa la voce che in Italia ci sono migliaia di occupati stagionali nel settore alimentare, gli italiani pensano solo a mangiare e la pizza è un piatto nazionale. Un settore che non avrà mai crisi. Poi gli impianti sono in mano ai giapponesi, in società con gli inglesi. Sterlina e yuan, monete forti non legate all’euro. In fondo gli italiani sono brava gente, se capita di rompersi un braccio ci sono gli ospedali di Stato, non fanno distinzione di pelle o nazionalità. La voce corre, dai villaggi remoti si salutano le famiglie, si intraprende un viaggio salutare che attraversa tutto il deserto del Mali, dell’Algeria e della Libia, poi una barca ed eccoci nella terra dei pomodori. Nulla di più facile. E no, cari miei. Lavorare per la Mitsubishi Corporation è una cosa seria. Non è per tutti. Prima gli italiani, a raccogliere i pomodori nella Capitanata. AR, viaggio di andata e ritorno. Viaggio fino a vedere la costa italiana dal barcone, poi indietro verso Libia, Algeria, Mali. A casa. Poiché siamo brava gente vi regaliamo una pizza per il viaggio di ritorno. Offre lo Stato Italiano, si intende, non la Mitsubishi Corporation. A loro solo i profitti del mercato del pomodoro italiano, l’oro rosso. Per voi, cari ragazzi, la pacchia è finita. Questa volta finita per sempre.
OL