Due esempi di infanzia rubata, colti al volo
Ci sono cose, a volte, che mi colpiscono più di altre, frammenti mnemonici così intagliati nella coscienza altrui da diventare lame perforanti per la mia, pungolo e monito per riflettere.
C’è una data, 10 giugno 1967, e un bambino palestinese di sei anni a Nablus, città della Cisgiordania. Nella terra arsa di polvere desertica, il bambino gioca a pallone con i suoi piccoli amici; in questo angolo martoriato di mondo, centro di una contesa sanguinosa e mai risolta, dove l’energia dell’infanzia deve fare i conti con il coprifuoco e ogni grido di gioia può smorzarsi nel fischio improvviso e lacerante di una sirena d’allarme.
Il bambino si chiama Muin Masri e oggi è un uomo che si porta nell’animo l’amarezza di una ferita, una ferita difficile da rimarginare. Quell’uomo oggi è un adulto che sa scrivere libri e racconti, fa il giornalista e qualche giorno fa ha scritto qualcosa della sua storia.
La sua è la storia di un’infanzia irrimediabilmente e doppiamente tradita, una storia emblematica di altre, altrettanto disperate, in cui piccole vittime perdono il diritto all’innocenza, derubate della spensieratezza dei giochi, per entrare repentinamente nella spirale della brutalità e della follia degli adulti.
Ci sono dunque un pallone e una porta con i pali sbilenchi proprio di fronte a una scuola dove i ragazzini studiano e nel cortile della quale si radunano per giocare.
Ci sono nuvole di polvere che si sollevano intorno alle piccole caviglie in movimento e schiamazzi divertiti che riempiono l’aria.
D’un tratto una jeep di soldati israeliani sopraggiunge a capo di una colonna di carri armati. I bambini fuggono in ordine sparso tranne uno, forse il più curioso o il meno diffidente.
Muin rimane semplicemente abbagliato dalla presenza maestosa di quella colonna di sagome metalliche e cingolate.
Quell’esitazione fatale diventa una trappola. Un biondo soldato salta a terra dalla jeep e gli si avvicina, vuole che il piccolo gli apra la porta della scuola dall’interno, giudicandolo al corrente di come si fa. Per convincerlo il soldato sporge una tavoletta di cioccolato, promessa di una delizia inimmaginabile nella realtà di un bambino come Muin.
Per un istante i capelli biondi del soldato e la tavoletta bruna di cacao sembrano fondersi nello sguardo del piccolo e anche nel cangiante giallo azzurro del cielo. Infine, la mano del bambino si allunga in un gesto di scambio che pone irrimediabilmente fine alla sua innocenza, come in un passaggio forzato dall’età dei sogni a quella della realtà.
La scuola verrà così occupata dai militari israeliani e le partite di calcio, per Muin, bollato come un traditore dai suoi stessi piccoli amici, diventeranno un sogno proibito.
Da quel momento la vita di Muin si struggerà nell’intimo di un tormento e di un’onta che lo segneranno per sempre.
La mente di un bambino è un terreno contaminabile, è un quaderno aperto su cui è possibile scrivere, in modo strumentale, ogni parola.
Questo episodio mi ha colpito perché rivela come i dettagli possano emergere per incisività rendendo più nitide le forme della violenza. Un pezzo di cioccolato racconta i toni di un dramma assai meglio di una pioggia di razzi a cui, essendo ormai assuefatti, forse attribuiamo minor forza simbolica.
Chissà perché, dopo aver letto l’articolo di Muin su questo giornale, quasi per coincidenza, in serata, ho visto un film esemplare di un altro terribile esempio d’infanzia, non solo violata, ma volontariamente sacrificata alla dittatura dell’orrore.
Attraverso un salto storico temporale all’indietro, di più di vent’anni rispetto al 1967, il film “La caduta – gli ultimi giorni di Hitler” del regista Oliver Hirschbiegel, con Bruno Ganz nei panni del dittatore, racconta gli ultimi giorni di Hitler, chiuso nel suo bunker, in una Berlino ormai circondata dall’esercito russo, prima che il gran capo nazista ponga termine alla sua sciagurata e parossistica esistenza.
Con il fuhrer, insieme ad altri gerarchi nazisti, c’è anche la famiglia Goebbels.
Nell’orrore generale di questo pezzo di storia, di nuovo mi ha colpito la potenza del dettaglio.
Tragedia nella tragedia, Magda, la moglie di Goebbels, somministra preventivamente un sonnifero ai suoi sei bambini perché la guerra per i tedeschi è perduta e sopravvivere senza il nazionalsocialismo non ha alcun senso. Questo, almeno, è il pensiero di Magda e di suo marito.
Con i bambini scivolati nel sonno, la madre padrona si avvicina a un lettino, schiude le labbra al primo dei suoi piccoli addormentati, labbra che sono un’acerba fessura e, risoluta, spinge adesso una pasticca di cianuro all’interno della bocca.
In seguito, e qui la forza del dettaglio segna profondamente l’emotività dello spettatore, come in un gesto di pietà allucinata, la madre assassina alza un lembo di lenzuolo a coprire il viso di ognuno dei suoi figli. Pasticche di cianuro direzionate a forza e lembi di lenzuolo sollevati sul viso sono atti che, con identica glaciale determinazione, si ripetono per sei volte consecutive.
In qualche caso la signora Goebbels accompagna i suoi gesti omicidi con il corredo di una carezza.
Questa scena indimenticabile, da sola, esprime l’intera insensatezza della guerra, un tritacarne di vittime innocenti consegnate alla morte senza possibilità di difesa e di scampo.
Ho messo insieme queste due cose, l’infanzia rubata a Muin e quella rubata ai figli dei Goebbels, pur rispettandone le distanze, perché, come detto, i dettagli della scena mi hanno folgorato in entrambi i casi, aumentando a dismisura la rilevanza del loro potenziale simbolico.
Muin, oggi, non rinuncia al desiderio legittimo che venga fatta giustizia, sognando un tribunale per il ladro o i ladri della sua infanzia.
Mentre i figli di Goebbels sono affondati nel buio dell’incoscienza lui, nella sua infanzia violata, ha almeno trovato il conforto di una consapevolezza in fase di sboccio.
Il prezzo da lui pagato è enorme, ma il cammino della speranza riparte soprattutto dalle ferite che vengono anche meditate e comprese e, in questo senso la storia di Muin, che non cede alla tentazione dell’odio, ci riporta a qualcosa di fondamentale, educativo e prezioso.
Pierangelo Scala