Morire di emarginazione in Barriera di Milano

Dopo l’omicidio del diciannovenne Mamoud Diane in via Monte Rosa durante una rissa, le conseguenti operazioni di polizia nel quartiere nord di Torino provocano una seconda vittima. È Hamid Badoui, che all’inferno del Cpr ha preferito la morte

Parlare di Barriera di Milano non è cosa semplice: come per tante altre periferie, il rischio è sempre quello di raccontarne solo una parte, rimandando un’immagine cristallizzata, un breve frame di una grande mescolanza di realtà diverse tra loro. A volte simili, più spesso opposte.
La sera del 2 maggio l’ennesima rissa avvenuta in quartiere termina nel modo più tragico: una lama colpisce al cuore Mamoud Diane, ragazzo ivoriano di soli 19 anni, che muore sul colpo.
Dopo un primo momento di ricordo del giovane, al quale partecipano familiari e amici di Diane, la chiesa locale e la parte ancora sana degli abitanti del quartiere, si scatena il circo: una marcia organizzata da Fratelli d’Italia, con in testa l’ormai immancabile gerarca di Torino Maurizio Marrone, attraversa il quartiere invocando soluzioni di forza e proposte inconsistenti, ma di grande effetto mediatico, come “togliere le case a chi le affitta agli spacciatori per trasformarle in alloggi popolari per gli italiani”. A mettere il carico da novanta ci penserà la deputata FdI Augusta Montaruli, che quando non abbaia in diretta nazionale sfrutta le tragedie per fare propaganda in Parlamento.
Poi iniziano le operazioni di polizia. La sera del 15 maggio, dopo alcuni giorni di controlli sparsi nei locali del quartiere, un’operazione di polizia su vasta scala tiene in ostaggio Barriera per diverse ore: mezzi di tutte le forze armate invadono le strade, chiunque metta il naso fuori di casa viene controllato e un elicottero della polizia sorvola il quartiere per diverse ore. A chi chiede spiegazioni del clima da occupazione militare, viene risposto che si tratta di “normali controlli”. Durante i controlli verranno identificate circa 100 persone, per lo più stranieri. Due ragazzi di origine nord africana vengono fermati perché perché privi di documenti in regola, e vengono avviate le pratiche di espulsione. Altri vengono arrestati per reati minori, e infine i giornali parleranno anche della perquisizione di un’intera palazzina in via Lauro Rossi a “caccia di droga”, anche se molti abitanti non confermano la notizia.
E dopo? Cosa succede una volta che il circo leva le tende?

Sicuri da morire

Sabato 17 maggio in corso Giulio Cesare Hamid Badoui, quarantenne di origine marocchina, a causa di una truffa o un’incomprensione con un tabaccaio, chiama la polizia.
Badoui viveva in Italia da quindici anni, aveva la carta d’identità, una madre con un permesso senza scadenza e una sorella con la cittadinanza. Badoui era però anche una persona fragile, che viveva per strada a causa della dipendenza da crack, fatto che viveva con vergogna, e che lo aveva portato a compiere piccoli furti, a qualche condanna e qualche soggiorno in carcere, senza nessun piano per combatterla. Circa due mesi fa aveva finito di scontare l’ultima pena al Lorusso e Cotugno, ma il giorno dopo, siccome i documenti di permanenza erano scaduti, era stato trasferito nel Cpr di Bari, dove è rimasto per tre mesi. Da lì il centro in Albania, da cui era venuto via dopo che la giudice aveva stabilito l’irregolarità della sua detenzione.
«Hamid ce l’aveva quasi fatta – raccontano dal gruppo Abele, onlus di Torino che ben conosceva Badoui –. In carcere aveva deciso di disintossicarsi dal crack e ce lo aveva comunicato».
Nonostante avesse chiamato lui stesso la polizia, Badoui viene arrestato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Durante l’intervento però una folla ha più volte tentato di impedirne l’arresto: Badoui era visibilmente terrorizzato dall’idea di tornare nel Cpr. «Meglio il carcere che il Cpr». Non solo per le condizioni di vita terrificanti. Aveva paura di non poter accudire la madre malata di cuore, temeva di essere rispedito in Albania senza poterle essere di aiuto. Perché almeno in carcere poteva chiamare la famiglia, da lì no.
Hamid Badoui è finito di nuovo in manette, mentre mezzo quartiere protestava perché non lo portassero via. Meno di ventiquattro ore dopo si è impiccato in carcere, con i lacci delle scarpe. La Procura ha aperto un’indagine sulla morte, che già si sa non porterà a nulla.

Il pozzo avvelenato che intossica tutti

Anche in questo caso una parte del quartiere si è attivata, con una consistente manifestazione, alla quale erano presenti anche la sorella e la madre di Badoui, che il 27 maggio ha attraversato le strade di Barriera.
Non tutti la pensano così: una parte consistente del quartiere, costituita soprattutto, ma non solo, dai residenti bianchi sopra una certa età, invoca risposte ancora più dure e repressive. A poco serve far notare come di presenza di forze armate in Barriera ce ne sia già parecchia, e non si sia dimostrata risolutiva: da più di un anno su corso Palermo è presente quasi 24 ore su 24 un presidio militare, letteralmente a due passi da dove Mamoud è stato ucciso, la cui poca utilità nel contrastare i fenomeni di microcriminalità nel quartiere è ormai sotto gli occhi di tutti. La polizia non protegge, al massimo arresta, nel tentativo posticcio di tamponare una ferita già inferta.
I problemi di microcriminalità e droga che esistono in Barriera sono prodotti dell’emarginazione. L’emarginazione di chi non ha né soldi, né proprietà, né conoscenze. Di chi un lavoro non lo può trovare, perché non ha i documenti in regola, e diventa così manovalanza sacrificabile delle organizzazioni criminali. Di chi la polizia non la può chiamare, perché sa che non verrà protetto, ma profilato, razzialmente e socialmente, e trattato di conseguenza.
Di emarginazione si muore: che sia per un’overdose, per il freddo dell’inverno, per un coltello nel cuore durante una rissa o per la mancanza dei documenti giusti.
E nella disperazione, chi ha ancora qualcosa da difendere, sia una casetta di proprietà con le mura scrostate o il giusto colore di pelle, vive nel terrore di chi è due gradini più in basso, invocando feroci repressioni. Un risultato non casuale, ma scientificamente ricercato: perché il vero assedio in Barriera di Milano non è né militare né criminale: il vero assedio è quello mediatico.
Ogni giorno testate come Cronaca Torino e Torino Today, che nonostante si mascherino da innocue testate locali sono palesemente vicini alla narrazione della destra, riportano ossessivamente ogni caso di cronaca nera in quartiere. Servizi ripresi e amplificati da gruppi come Welcome to Torino e tanti altri, che sul voyeurismo del disagio privo di analisi e la monetizzazione delle reazioni emozionali hanno fatto la propria fortuna.
Questi più di ogni altro sono gli elementi che avvelenano i pozzi, aumentando la sensazione di insicurezza, mettendo i poveri gli uni contro gli altri e soprattutto dando la falsa impressione di un quartiere bicromatico, diviso tra vecchine terrorizzate che invocano le camere a gas e stranieri tossicomani e feroci pronti a divorarle come i lupi delle favole.
Ma i mostri non esistono, né tra gli anziani bianchi né tra i giovani immigrati. Esistono solo i fenomeni e la narrazione che se ne fa. E fortunatamente in Barriera esistono ancora tanti gruppi, associazioni e persone che ogni giorno si battono e lavorano per migliorare le cose, e per fornire nuove e più corrette narrazioni.
Narrazioni alle quali è importante, oggi più che mai, dare più spazio possibile.

Lorenzo Zaccagnini