Quasi 3000 persone sfilano nel centro cittadino. Nell’Italia del fascismo istituzionalizzato, qualcuno resiste alla barbarie.
Il 1 luglio si è svolto a Torino il corteo nazionale per la chiusura dei Cpr, il primo a sfilare per le vie patinate del centro cittadino. Quasi 3000 persone sono partite da Piazza Castello, dove è stato appeso uno striscione sulla facciata di Palazzo Madama, per poi sfilare attraverso i Giardini Reali e Corso San Maurizio fino a raggiungere Piazza Vittorio. Molti gli interventi di respiro internazionale: presente una delegazione da Salonicco, dove poco tempo fa si è consumata l’ennesima strage di migranti morti in mare, un naufragio per il quale si è consapevolmente scelto di non intervenire. In corso San Maurizio verrà invece issato uno striscione in ricordo di Nahel, il giovane diciassettenne ucciso dalla polizia in Francia, paese che nelle ultime settimane si trova ad affrontare le pesanti rivolte figlie del razzismo sistemico mai affrontato e della violenza poliziesca istituzionalizzata che nel solo 2022 aveva già provocato 13 morti. Ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che il pugno duro invocato dalle forze reazionarie più che sedare il conflitto sociale lo esacerba.
Cosa sono davvero i Centri di Permanenza per il Rimpatrio.
Delle tante forme di non troppo mascherato fascismo messe in atto dallo Stato nel corso degli anni, quasi nessuna è esplicita quanto i Cpr. Spesso appellati “Lager di Stato”, espressione che a prima vista può sembrare eccessiva per una struttura statale moderna, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio la somiglianza con i campi nazisti se la sono guadagnata per diverse ragioni.
Innanzitutto, similmente a quanto accadeva nei Lager, ci si finisce dentro per reati atavici, iscritti nel dna, il peccato originale di essere nato nella parte del mondo sbagliata, ergo non avere i documenti giusti per stare dove si sta. Senza nemmeno bisogno di passare da un tribunale. Nonostante la propaganda dipinga le persone detenute all’interno dei Cpr come criminali stranieri da espellere, non si finisce nei centri per aver commesso un reato. Per quello si continua a finire in prigione. Sarebbe considerato scandaloso se un migrante, dopo aver commesso un reato, non fosse portato in carcere ma in un posto terzo, ed è facile immaginare chi soffierebbe sul fuoco di una simile notizia.
L’altro motivo per il quale i Cpr si sono guadagnati il soprannome di Lager sono, piuttosto intuitivamente, le condizioni di vita all’interno. Strutture fatiscenti, supporto sanitario insufficiente, cibo scarso e spesso marcio, ma soprattutto l’impossibilità della difesa legale e del contatto tra il mondo dentro il Cpr e quello fuori. Più impenetrabili di un carcere, persino avvocati e familiari affrontano notevoli difficoltà nello stabilire un contatto, e nonostante la detenzione massima non possa teoricamente superare i tre mesi spesso le condizioni di vita e la mancanza di comunicazione spezzano l’animo di chi vi è recluso. Nel Cpr di Torino, sito in corso Brunelleschi, l’episodio più eclatante avvenne nel 2021, quando Moussa Balde, migrante guineano giunto nel centro dopo esser stato vittima di un violento pestaggio a sfondo razziale, si tolse la vita all’interno dell’ospedaletto, stanza utilizzata in teoria per ragioni sanitarie, in realtà cella liscia di isolamento.
La morte di Balde creò giustamente una certa indignazione, accendendo per un poco i riflettori sulla situazione dei Cpr, della quale fino ad allora gli unici a interessarsi attivamente sembravano essere gruppi anarchici e un piccolo pool di avvocati illuminati.
È importante a questo punto precisare che la mancanza di comunicazione tra dentro e fuori non impatta solamente sulle situazioni individuali, perché il punto più problematico sta proprio nella trasparenza istituzionale. Le uniche informazioni che giungono all’esterno per canali ufficiali arrivano quasi esclusivamente dai sindacati di polizia, la stessa forza che ha dimostrato più volte di incorrere in comportamenti non propriamente istituzionali quando priva di un controllo esterno, spesso con l’appoggio di personale sanitario compiacente. I racconti di chi dai Cpr ne esce sono ricchi di episodi di violenza ingiustificata, atteggiamenti platealmente razzisti e abuso sistematico di psicofarmaci, utilizzati per sedare qualsiasi forma di protesta, come confermato da recenti inchieste giornalistiche.
Una situazione umana al limite che porta a forme di protesta al limite, come rivolte interne, incendi, ed episodi anche estremi di autolesionismo, ultima forma di lotta per chi è privato anche dei diritti più basilari. Una situazione fuori controllo, che dopo 24 anni ha portato alla chiusura temporanea del Cpr di Torino, oggi in via di ristrutturazione grazie al supporto di Operosa SPA, azienda dalla patina verde-rosa la cui tanto sbandierata etica sembra finire dove inizia la possibilità di un guadagno. A differenza di quanto accade per le carceri italiane infatti, i Cpr sono strutture gestite con la partecipazione dei privati, una situazione più simile a quella dei penitenziari francesi le cui aziende hanno infatti ramificazioni anche all’interno dei centri italiani, e i cui introiti si basano ovviamente sul tagliare il più possibile costo e qualità dei servizi. Il vero business dell’immigrazione.
Manifestare dissenso per salvare noi stessi.
Sarebbe purtroppo poco realistico pensare che una manifestazione, per quanto partecipata, abbia la forza di incidere così pesantemente sulla realtà da far chiudere da un giorno all’altro quelle strutture che più di tutte rendono esplicite le incoerenze dell’attuale impianto democratico. L’attuale governo Meloni ha già stanziato ben 40 milioni per ampliare ancora la struttura dei Cpr, auspicando di costruirne di nuovi. Un’operazione che procede indisturbata grazie all’opposizione di carta del Partito Democratico, che si limita a biasimare timidamente i casi estremi occasionalmente balzati agli onori della cronaca, guardandosi bene dal porre una critica di carattere sistemico, consapevole di aver voluto, costruito e utilizzato quei Cpr senza troppi problemi.
È la vera banalità del male, che non si volta più nemmeno dall’altra parte, ma anzi guarda con indifferenza un’ingiustizia feroce ormai divenuta normalità quotidiana. Verrebbe da chiedersi se allora tutti quei viaggi del Treno della Memoria, le Giornate del Ricordo e i tanti troppi film melanconici sui grandi genocidi siano mai serviti a qualcosa. A cosa ci serve conoscere e capire il passato, se quando quelle stesse dinamiche si ripetono davanti ai nostri occhi le lasciamo scorrere con apatia, adducendo di volta in volta giustificazioni di comodo?
Forse la più grande funzione dei cortei come quello del 1 luglio a Torino sta tutta qui. Ribadire che anche quando la società fingeva di non vedere cosa stava facendo, qualcuno ha ritenuto giusto puntare i piedi contro l’indifferenza ormai largamente maggioritaria. E se anche questo sarà troppo poco per cambiare le cose, almeno ci permetterà di guardare ancora i nostri volti allo specchio, senza sentire il bisogno di vomitare.
Lorenzo Zaccagnini