L’eredità del raccontare

In avvicinamento al 25 aprile, intervistiamo Federico Jahier, autore di libri sulla Resistenza nelle Valli Valdesi. La sua ultima opera “La locanda di Viola. Una storia partigiana” narra la storia di una ragazza coraggiosa e della Locanda dei fiori in Val Chisone che ha resistito ai fascisti e ancora oggi, grazie a una nipote di Viola, è un presidio dove gustare le specialità locali e dove è allestito uno spazio della memoria.

È uscito da poco “La locanda di Viola. Una storia partigiana”, il tuo terzo libro che parla di Resistenza. I precedenti sono “Le scarpe di Angiolino Storia di un partigiano tra la Valsusa e la Valpellice” e “La guerra nelle valli valdesi. I ricordi di un ragazzo e le immagini di un pastore fotografo”. È il quinto libro che scrivi, gli ultimi tre hanno avuto come tema la Resistenza. Si parte da tre storie particolari che raccontano una storia più ampia, collettiva. Ci puoi raccontare brevemente questi tre i libri?

La guerra nelle Valli Valdesi parte proprio da una mia esperienza personale nel senso che mio padre e mio nonno, pastore valdese, abitavano a Villar Pellice e sono stati testimoni della guerra partigiana da una parte e delle rappresaglie, delle uccisioni, delle fucilazioni, dall’altra. A mio nonno hanno sparato bucandogli la tonaca, è stato fucilato in una delle finte fucilazioni che usavano fare. Mio padre ha visto degli amici scoppiare sulle mine.
Tra le cose di cui sono stati testimoni una particolarmente forte è stata l’uccisione di cinque partigiani, il 5 agosto del 1944. Fra questi partigiani c’era il molto conosciuto anche ad Ivrea Willy Jervis. Un partigiano 43enne che lavorava all’Olivetti di Ivrea, che aveva famiglia e si è buttato in una lotta, mentre poteva tranquillamente starsene a casa.
Questo il libro è composto anche da una grossa parte di fotografie del nonno pastore che faceva anche il fotografo per diletto, ma anche per la comunità. Infatti una di queste fotografie è quella che raccoglie in una sorta di collage decine e decine di foto tessera che il nonno faceva per i documenti necessari per passare una barriera nazista all’ingresso di Torre Pellice.

Il secondo libro che ho scritto sulla Resistenza, è Le scarpe di Angiolino, un partigiano della Valsusa che viene arrestato dai nazisti nella sua valle e che verrà ucciso a Villar Pellice, in piazza, insieme a Willy Jervis e ad altri tre partigiani che sono rimasti a tuttora anonimi. Anche Angiolino era rimasto anonimo per un po’ di tempo, ma poi era stato riconosciuto dalle scarpe, e questo particolare mi aveva incuriosito tantissimo. Con una serie di ricerche sono riuscito ad arrivare a dei parenti e con questi ricostruire la sua storia che passava dalle Nuove di Torino dove alla sorella che andava tutti i giorni a trovarlo un giorno dissero che suo fratello era stato deportato in Germania, mentre non era vero, era stato ucciso. I parenti sono stati molti anni a cercarlo e a sperare che tornasse dalla Germania, ovviamente invano, una storia comune a molti parenti di partigiani. Quando Angiolino è stato poi disseppellito e riconosciuto, può sembrare strano, i parenti si sono sentiti sollevati, la sua storia aveva avuto una fine conosciuta.

L’ultimo libro si intitola La locanda di Viola e racconta di una staffetta partigiana della Val Chisone: Viola Lageard. In questo libro parlo della vita di una partigiana, cercando tra l’altro di mettere in luce quanto sia stato pericoloso il mestiere della staffetta. Termine che sembrerebbe sminuire il ruolo di queste donne. Entrando in empatia con Viola e gli altri personaggi di questo libro ho cercato di raccontare quale vita pericolosa vivevano, quale coraggio avessero da indossare tutti i giorni. Viola ha disseppellito compagni partigiani appena uccisi, raccolto dei loro oggetti, ha partecipato a delle missioni a rischio di vita che erano state rifiutate da più uomini. Questo testimonia della sua incredibile forza, lei riusciva a superare gli shock continui a cui era sottoposta in quel periodo.
Ritengo che la sua forza  possa essere anche un aiuto per noi: il suo modo di agire farci pensare di poter superare gli ostacoli, di poter sempre avere una speranza di poter risolvere dei drammi incredibili.

 

 

A parte i racconti di tuo padre e le fotografie di tuo nonno, dove hai trovato le altre due storie che hai raccontato, quella di Angiolino e quella di Viola? Come ti muovi nella ricerca delle fonti, delle informazioni e delle persone da intervistare o di cui raccogliere i racconti?

Per quanto riguarda il primo libro ricordo di aver visionato la cartellina che contiene il materiale relativo a Willy Jervis all’Istoreto, l’Istituto per la Storia della Resistenza di Torino, dove ci sono alcuni verbali di interrogatorio, delle lettere, … l’impatto emotivo è molto forte perché sui verbali si vede all’inizio la firma di Willy Jervis all’inizio con la sua scrittura chiara, ma a mano a mano che si va avanti con la detenzione, le torture e le percosse, la scrittura si fa sempre più confusa, fino ad essere irriconoscibile, a testimonianza di quello che ha subito in quel periodo, senza per altro tradire mai dei compagni.
Le altre storie le ho trovate grazie a dei testimoni. Questi libri sono sì dei romanzi, ma si basano su fatti storici precisi e veritieri, non ho inventato quasi nulla, tranne quando in certi punti della storia c’erano dei buchi, ad esempio quando Angiolino era in carcere e non c’erano testimoni di cosa succedeva lì, però questi buchi li ho tappati in modo verosimile. I testimoni sono saltati fuori da una ricerca da una persona all’altra, da una frase all’altra, fino ad arrivare nel caso di Angiolino a Cesira, la  sorella minore ancora in vita. Quello è stato un incontro stupendo, una testimonianza toccantissima che ho dovuto poi elaborare mentalmente 4 o 5 anni prima di riuscire a entrare nella storia e quindi a scriverla.
Per Viola invece il testimone è stata sua figlia Marilena e la Locanda stessa, perché la Locanda dei Fiori era al centro di questa attività partigiana, il posto da cui partiva Viola per le sue missioni, dove si ritrovavano molto spesso partigiani, il posto dove partigiani importanti come il partigiano Serafino vennero sorpresi dai tedeschi riuscendo comunque a fuggire saltando da un balcone. Ecco quindi il romanzo di Viola è nato dai racconti, dai documenti e dalle foto che Marilena conservava e dall’energia che emana la Locanda che è stata riaperta da una coraggiosa nipote di Viola che continua la sua testimonianza con uno spazio dedicato alla memoria attraverso la storia di Viola.
Comunque come ricercatore di fonti sono scarso, non so muovermi in un archivio, in una biblioteca con troppi documenti davanti, e anche come detective alla ricerca di testimoni non brillo, non è il mio “campo da gioco”, quindi cosa faccio? Mi faccio aiutare. Ad esempio l’ultimo libro, quello di Viola, è stato scritto a quattro mani insieme ad Andrea Geymet, studioso della storia, della Resistenza soprattutto, nelle Valli Valdesi. Abbiamo proceduto come se salissimo una scalinata, gradino per gradino, lui interveniva aggiustando la veridicità dei fatti che proponevo e io rendevo narrazione i fatti nuovi proposti da lui, in modo che potessero interessare ed essere letti da chiunque, non un saggio per pochi, ma un libro dedicato a tutti. E’ importante dire che dai testimoni con i quali si parla e ci si trasmette fiducia, si assorbe tutto il materiale, tutti i ricordi che possono darti.

Le storie che hai raccontato sono svolte nelle Valli Valdesi che sono la terra di origine della tua famiglia, non trovi che ci sia un filo comune nelle storie dei partigiani di altre montagne?

Sì, ci sono dei tratti in comune: i paesi di montagna, la montagna stessa, il bosco, la neve, le grange, la fame, la paura, il tipo di guerriglia, il trasporto dei feriti, la fuga oltre confine, potrei continuare, ci sono tantissime cose in comune, anche se poi le storie hanno ognuna la sua specificità. Questo vuol dire che è anche bello leggere libri di storie di altre vallate perché ci si riconosce, ma si scoprono anche particolari che sono molto interessanti perché tante volte ci permettono di aprire gli occhi, di aprire la mente.

Federico Jahier

Una riflessione: ormai i testimoni diretti stanno scomparendo quasi tutti e chi è ancora fra noi ha un’età avanzata. Rimangono figli che anche loro hanno già una certa età e infine rimangono i nipoti, come lo sei tu, che decidono di raccontare. È un passaggio del testimone molto importante senza il quale tante storie non verrebbero più ascoltate e si perderebbe la memoria. Tu ricerchi in particolare storie di persone per raccontare la Resistenza, nel modo migliore ovvero raccontando la storia delle persone che l’hanno fatta, delle loro comunità. È un impegno importante che chi ha ricevuto queste eredità deve, secondo me, portare avanti. Non solo come racconto familiare, che rimane in famiglia, ma come trasmissione di una storia che è una storia comune. È questa la motivazione che ti ha spinto a mettere per iscritto le storie che hai raccolto?

Sì, certo a me piace raccontare le storie di chi la Resistenza l’ha fatta davvero, sulla sua pelle, sulla sua carne, sulle sue ossa. Quando trovo una persona che concretamente si è spesa per la Resistenza e ne sento la sua storia e questa entra in sintonia con la storia con la S maiuscola, la storia della collettività, ritengo che ci possa far capire non solo quello che si vive soggettivamente, ma  anche quello che si vive come collettività. Allora quella storia diventa potentissima e trasmette tantissimo ed è una nascita di qualcosa che altrimenti andrebbe a morire.
Quante se ne sono perdute perché i diretti testimoni non volevano più parlarne, perché in guerra si fanno delle cose che poi si vogliono dimenticare, in particolare pensiamo alle storie nei campi di concentramento. E così si perde un patrimonio molto importante si crea proprio un buco nella storia, incolmabile e gravissimo perché teoricamente, come si dice, conoscere quella storia ci dovrebbe permettere di non ripetere più gli stessi errori, cosa che per me invece non è vera, l’essere umano è così stupido che ripete sempre gli stessi errori, ma questo non toglie che dobbiamo provarci lo stesso.

a cura di Miriam Perini