L’inserto della Fenice, interno a Varieventuali, offre spunti di riflessione interessanti proprio perché apre una finestra su un mondo che va al di là del comunemente noto. Accende una luce sui pensieri dei detenuti, sulle loro frustrazioni, sulle loro speranze e sulle loro disperazioni. Sono uomini che scontano pene in condizioni non sempre idonee al loro ricupero come individui.
A volte l’idea del carcere, che matura all’esterno, nel cosiddetto mondo di chi non ha commesso palesemente dei reati, è quella di una porta irrimediabilmente chiusa. Anche un incarcerato innocente, e prontamente scagionato dopo qualche giorno di galera, subisce il rischio dello stigma sociale, diventa oggetto di sospetto, vittima di ostracismo pregiudiziale e, nel migliore dei casi, di indifferenza. Di conseguenza, è facile dedurre che tipo di sensazioni possano produrre reati di una certa gravità.
Dimentichi delle massime che invitano a scagliare la prima pietra, solo se si è esenti da colpe personali, i buoni liberi cittadini chiudono gli occhi su una realtà che fa paura. Sì, perché il carcere fa paura né più né meno come l’ospedale. Nel panorama della condizione e della debolezza umana, nella sua istintuale meschinità, la detenzione può essere vista e giudicata come la malattia. Celle e nosocomi sono sinonimi di privazione della libertà e di perdita della salute, cose da cui si cerca di stare lontani.
Spero di sbagliarmi ma questo è il primo scalino da superare, nel mondo di fuori, per accorciare le distanze verso il mondo di chi è dentro. Il tentativo di ridurre il solco divisivo sta nelle mani di chi intende fare uno sforzo in più per comprendere che carcere e società non sono così antipodali.
Purtroppo viviamo in un presente che non fa degli opposti un’occasione di dialogo ma ne esaspera i confini. Chi sta dentro auspica una società più attenta ai bisogni di chi è pronto a ravvedersi e chi sta fuori auspica, invece, una società più severa e restrittiva soprattutto per tacitare le sue paure.
L’articolo di cui sto parlando è quello che si intitola: “Mutamento” a firma di Diego T. e Michelangelo D.
Mutamento è una parola chiave come “guarigione”. L’uomo, anche se scarseggio in filosofia, è parte di un eterno divenire. Eraclito, cito mutuando da reminescenze studentesche, diceva che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, essendo diversi, ad ogni nuovo istante, sia il soggetto che l’acqua in cui si immerge. L’uomo dunque muta.
Ci sono cambiamenti e risorgenze. I primi possono essere indipendenti dalle nostre intenzioni e volontà così come viene detto nell’articolo. I secondi invece, se sono soprattutto psicologici e mentali, sono legati fondamentalmente al proprio carattere e alla propria determinazione.
La volontà personale, però, è uno strumento potente soltanto se si allea con la sincerità del proposito. Con la rinascita non si può barare. O espii e risorgi dalle tue ceneri oppure bluffi e ti condanni alla più che probabile reiterazione del reato, né più né meno come solitamente succede a chi il “cambiamento” nemmeno lo ipotizza. La metamorfosi ha una sua verità.
La mia convinzione è che, per quanto importanti, le condizioni sociali, i supporti dei professionisti del ricupero, non siano determinanti ai fini del “mutamento”.
Salvini c’entra ben poco con la partita che il detenuto ingaggia con se stesso e nemmeno l’odio nei confronti dei carcerati. Questi due fattori, se ben interpretati, possono addirittura funzionare come stimolo per un percorso di superamento e liberazione.
Sulla via del riscatto troverai i giusti soccorritori e gli aiuti che ti servono, su quella della “rabbia distruttiva” troverai altrettanti cattivi maestri per affossarti definitivamente.
La scelta iniziale sta sempre e soltanto nelle tue decisioni anche se si tira sempre in ballo la società come se questa potesse determinare più che condizionare il tuo destino.
Non sei più un bambino manipolabile a piacere, ma un individuo che deve, suo malgrado, rispondere alla chiamata di se stesso.
A remare contro questa logica, intravedo anche quel modello di comportamento giudiziario che, per guadagnare sconti di pena, tende a separare e dissociare la vittima dal colpevole. Con questa strategia, la vittima viene psicologicamente neutralizzata, resa meno ingombrante per non dire dimenticata. Il rapporto tra vittima e colpevole viene anestetizzato. Invece la vittima camminerà sempre accanto al colpevole, tanto più quanto il danno, nei suoi confronti, sarà stato rilevante.
La domanda è: “Come ti sentiresti o comporteresti se, credendo alla tua innocenza, i giudici ti assolvessero quando invece sei colpevole?”
La Fenice non rinasce facilmente dalle sue ceneri, ma soffre per un tempo indefinito finché il dolore non trova il suo scioglimento nella possibilità di perdonarsi. Il perdono del prossimo o della società non possono essere sufficienti se chi ha commesso un crimine non riesce a perdonare se stesso. In pratica se non avviene il mutamento.
Certamente tutto il sistema di supporto, che si muove intorno alle buone intenzioni del riscatto, è prezioso e propedeutico all’avvento di una società sempre più umanizzata. Anche chi ha tolto la vita può redimersi vivendo un futuro di libertà non disgiunta però, e qui mi ripeto, dal ricordo della vittima.
Quando ho letto “Delitto e castigo”, tanti anni fa, mi sono immedesimato nell’elaborazione continua da parte del protagonista “Raskol’nikov” del suo omicidio. Questo romanzo è un capolavoro che fa venire la febbre perché esplora i meandri della coscienza.
La luce in fondo al buio è una realtà perseguibile anche se la lunghezza della strada da percorrere può andare ben oltre quella in cui le porte del carcere si schiudono.
La società dovrebbe ridurre la distanza tra il dentro e il fuori dal carcere, ma il detenuto dovrebbe ridurre quella dalla sua vittima attraverso la sincerità e la forza delle sue intenzioni.
E’ la migliore occasione per il detenuto perché l’anima bruci di meno e perché la vittima non debba morire due volte.
Pierangelo Scala