Maledetti architetti, 2: Ma proprio tutti? Architetti e architetture: razionalismo italiano e stile internazionale; Figini e Pollini, Gropius, Van der Rohe, Rietveld, Le Corbusier: Ivrea-Patrimonio dell’Umanità Unesco
P. Domene, 23.09.20
Si diceva in un articolo precedente che molte persone non capiscono del tutto come le architetture olivettiane di Ivrea siano Patrimonio dell’Umanità Unesco, come lo sono il Partenone e altri monumenti molto conosciuti e visitati; altre persone manifestano spesso il loro scetticismo o la loro indifferenza sulla questione, o la loro difficoltà nel capire e godersi questi nuovi monumenti,come si godrebbero quelli soliti e molto conosciuti. Vorrebbero poter comportarsi davanti ad essi come visitatori consapevoli, o almeno come viaggiatori curiosi; si accontenterebbero addirittura di comportarsi come turisti il cui sfondo… merita un selfie. Davanti alle opere di Figini e Pollini, le Case per famiglie numerose (quelle che, scendendo da via Pinchia, ad alcuni sembrano “brutte come caserme”) o la fabbrica ICO (“cos’ha d’importante?” dicono altri) vorrebbero poter esclamare: “Guarda, guarda, che belle! Facciamoci un selfie! Ecco, almeno un selfie! Anche davanti alle case o ai fabbricati di Nizzoli-Oliveri o di Fiocchi, di Vittoria o di Gardella…
Si diceva anche nell’articolo precedente che il valore storico (oltre che sociale, culturale e artistico) di queste opere potrebbe risiedere nel costituire un esempio perfetto, molto significativo e quasi unico, di quella che è tra le più importanti “rivoluzioni” della cultura del XX secolo, cioè la sterzata data all’Architettura dagli architetti dello stile internazionale (Bauhaus, The Stilj, Mies van der Rohe, Le Corbusier…) e, per estensione, del “razionalismo italiano” (Figini, Pollini e gli altri del gruppo 7, Nizzoli…).
Avevo citato anche due libri interessanti del 1981. Il primo, di G. Polin, La casa elettrica di Figini e Pollini, contiene una lucida osservazione di Vittorio Gregotti sul cosiddetto “razionalismo italiano”: “Infine non si può non riconoscere, aldilà di ogni difesa di principio del valore della nostra cultura nazionale, che essa giocò nell’ambito del dibattito intorno al rinnovamento dell’architettura un ruolo periferico e forse secondario.[…] Eppure non vi è dubbio che nonostante lo schematismo delle idee, nonostante la produzione stessa non possa stare alla pari con le grandi architetture europee di quelli stessi anni, permane un assoluto mistero intorno alla qualità e alla specificità del razionalismo italiano.”
La produzione italiana, dice Gregotti, non può stare alla pari con le grandi architetture europee. Ma quali architetture europee? E quali architetture italiane?
Ecco ora il secondo dei libri: l’ironico ma lucidamente, chirurgicamente critico Maledetti architetti di Tom Wolfe. A dire il vero l’originale di Wolfe si chiama “From Bauhaus to our house”, mentre è l’editore Bompiani che chiama la versione italiana “Maledetti architetti”, titolo furbetto che comunque esprime bene l’operazione di demolizione che sul Movimento moderno europeo, lo stile internazionale (Bauhaus, The Stilj, Mies van der Rohe, Le Corbusier…) Wolfe esegue. Con orgoglio americano, ma con inoppugnabile e divertente rigore, Wolfe critica il mimetismo dell’architettura americana che ha abbandonato le proprie radici per inseguire (un vero tsunami per l’architettura autoctona) quei mistificatori europei. Wolfe è scaltro nel riassumere, ma veritiero nelle affermazioni: quei mistificatori europei funzionano bene nell’Europa disperata uscita dalla Grande Guerra, giovani architetti idealisti, desiderosi di assecondare il socialismo operaista, antiborghese e pre-hitleriano del dopoguerra; antiborghesi a parole ma, spesso, non nei fatti. Ideologi poco pratici che presto avrebbero manifestato le loro contraddizioni. E i giovani italiani?(aggiungo io): anche essi giovani architetti desiderosi di assecondare il socialismo operaista, antiborghese e pre-fascista del dopoguerra.
Nel suo esteso pamphlet Wolfe sa giocare: sa infatti che l’impostazione teorica dei nuovi movimenti europei è inoppugnabile, ma sa anche che, a distanza di qualche decennio, i risultati pratici sono stati piuttosto discutibili. Sa che quegli architetti che volevano partire da zero facendo del bene agli operai e rivoluzionando i rapporti dell’architettura con il capitale, sono stati inghiottiti presto dalla borghesia illuminata, una borghesia che incarica loro ville, edifici di rappresentanza o grattacieli adeguati al suo potere. Wolfe sa anche che i progetti ideali per quartieri operai spesso sono logorati dalle pastoie burocratiche o dal cinismo del potere. Conosce inoltre le incresciose vicende legate alle opere di Le Corbusier, p.e. lo stato rovinoso, modificato, o ampliato abusivamente dai loro abitanti, della Cité Frugès a Pessac; sa del conflitto irrisolto tra i committenti di Casa Saboye e l’architetto: la casa infatti è stata abbandonata dai committenti come inabitabile ed è andata in rovina. (n.d.r. Negli anni successivi è stata poi ricostruita artificiosamente dallo Stato come un set cinematografico per turisti tranquilli e architetti).
“Insomma, il metodo delle conventicole europee”, dice Wolfe, “il sistema di Gropius, del Bauhaus, de Mies, di Corbu, del gruppo The Stilj era assolutamente irresistibile. […] i contrassegni dello stile Bauhaus erano testi piatti, spigoli di vetro, materiali genuini e struttura dichiarata… […] Per esempio, c’era la ormai inviolabile teoria del tetto piatto e la facciata liscia […] tetti spioventi e cornicioni rappresentavano le “corone” della antica nobiltà che la borghesia ambiva ad imitare. [..] [quindi] Niente cornicioni. Niente gronde.[…] C’era poi il principio della “struttura dichiarata”. Alla borghesia era andata sempre a genio […] la falsa facciata; spesse mura di mattoni, e altri materiali grandiosi, repleti di ogni sorta di pietre ad angolo e di volte, frontoni ed architravi […] graziosi elementi antropomorfici come capitelli e traveazioni, pilastri e colonne, basamenti e zoccoli bugnati… Segue una lunga lista di spropositi borghesi che dovranno essere evitati soprattutto negli alloggi per operai . “Tutto questo doveva sparire […] tutto questo era sospetto […] D’ora in poi le pareti sarebbero state sottili, lastre di vetro o lame intonacate, piccole tesserine di ceramica beige potevano passare al limite […] l’anima moderna di un edificio doveva venir espressa all’esterno di un edificio scevro da ogni decorazione“.
Il panorama, riassumendo, risulta essere questo: visto dalla prospettiva americana di Wolfe lo stile internazionale è alle prese con le sue contraddizioni e difficoltà. Secondo Gregotti il razionalismo italiano ha dei contorni poco definiti ed è carente di una sua specificità. Inoltre ha giocato un ruolo periferico e forse secondario.
Che ruolo potrebbe giocare a questo punto l’architettura olivettiana? L’attività degli architetti che a Ivrea hanno lavorato dal 1930 al 1960 non ha infatti subito le contraddizioni di quella dei colleghi dello stile internazionale e ha inoltre contorni definiti e una significativa specificità; non sembra che abbia avuto, tra l’altro, un ruolo periferico e forse secondario.
A questo punto, non converrebbe approfondire il tema? Non potrebbe essere l’architettura olivettiana la chiave di volta che risolve i problemi e le limitazioni evidenziati sia dallo stile internazionale che dal razionalismo italiano? E’ una ipotesi, questa, molto plausibile ed interessante che darebbe ulteriore senso alla grande attenzione prestata recentemente alle architetture olivettiane. Ma è meglio trattare la questione prossimamente.