L’incontro del 30 settembre del Quinto Ampliamento è stato un interessante momento per capire lo stato di salute del lavoro partendo dalla pausa pranzo. Qualche riflessione critica sul “buonsenso del capitalismo” va, però, sottolineata
Cercare di dare un giudizio sulla “tre-giorni” promossa dall’Associazione Quinto Ampliamento sarebbe un’impresa impossibile, ma l’obiettivo di aprire un percorso di confronto sul modo di fare impresa in chiave civile si può dire sia stato raggiunto.
Le conversazioni sull’economia civile del 29, 30 settembre e 1° ottobre hanno riscosso un meritato successo. Decine di ospiti sono saliti sul palco delle Officine H, restituendo al pubblico spaccati di realtà imprenditoriale, di vita associativa e di studi provenienti dal mondo accademico.
Che l’obiettivo fosse quello di mettere in risalto ciò che di meglio l’imprenditoria può offrire quando si parla di economia civile è stato chiaro sin dall’inizio. Non è un caso, infatti, che l’incontro del 30 settembre dal titolo “Può una mensa darsi dei fini?” sia stato introdotto e coordinato dalla giornalista del Corriere della Sera Elisabetta Soglio, caporedattrice responsabile dell’inserto settimanale “Buone Notizie – L’impresa del bene”.
L’economista Michele Trimaschi ha esordito con queste parole: «Noi siamo in un nuovo medioevo da intendersi, però, in senso positivo, ovvero come laboratorio che prepara un nuovo Rinascimento. Grazie al cibo stiamo riscoprendo le stagioni e il ritmo delle cose. Inoltre, ripercorrere le mappe del cibo vuol dire scoprire il multiculturalismo». La stessa chiave di lettura ottimista è stata ripresa da Brian Cerani della multinazionale Compass Group. Dal suo punto di vista la conquista del diritto del pasto a lavoro non sarebbe da intendersi solo come un “problema da gestire”, ma «un’opportunità sulla quale investire». Dalle mense ai ristoranti aziendali, infatti, il passo è breve e oggi come oggi molte aziende guardano con interesse questo passaggio, soprattutto se si tratta di attrarre “risorse umane”. Cerani ha così citato le parole di Michiel Bakker, direttore del Google Food Program: «La domanda da fare è quanto ti costa non avere questo programma, soprattutto se vuoi attirare i migliori cervelli del mondo». La pausa mensa come opportunità di profitto, in altre parole.
Angelo Colombini, sindacalista CISL, ha avuto da ridire su un dato presentato dallo stesso Cerani secondo il quale in Italia la media della pausa pranzo si aggirerebbe attorno ai 52 minuti, contro i 26 della Norvegia. «52 minuti di pausa? Dipende dal lavoro e dai turni che hai. Attualmente non esiste una legge italiana che uniformi e regoli la pausa pranzo sul posto di lavoro. Esiste solo una legge europea che riconosce sulle 6 ore di lavoro uno stop di 10 minuti per mangiare. A livello contrattuale, poi, si possono fare altre scelte. L’unica cosa che stabilisce la legge italiana è l’obbligatorietà di un luogo dove poter mangiare o in assenza di questo un riconoscimento monetario o in ticket per la pausa pranzo».
Gli ultimi due interventi del pomeriggio sono spettati a Franco Fassio , ricercatore presso l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Stefano Cifani, direttore generale di Legambiente.
Fassio ha spiegato come il cibo e, più in generale la natura, siano fonte d’ispirazione per capire il valore della resilienza, ovvero la capacità di reggere ed adattarsi alle necessità del futuro, mentre Cifani si è soffermato sull’importanza delle leggi e della legalità quando si parla di cibo, spiegando quanto sia stato tortuoso e complicato il percorso cominciato da Legambiente nel 1994 per vedere approvata, nel 2015, la legge sugli eco-reati. «Fino a quando non ci sarà sinergia tra attori e imprese il percorso per il cambiamento sarà sempre troppo lungo» ha poi concluso Cifani.
L’ottimismo verso il futuro non è stato quasi mai messo in discussione durante l’incontro. Non che fosse richiesto, visto che i problemi d’attualità sono più che noti ed è comprensibile che un’organizzazione appena nata abbia bisogno di infondere fiducia nel proprio operato. La cosa apprezzabile di questo approccio ottimistico è stata la sensazione che si può fare impresa in un certo modo, se lo si vuole. Gli esempi avanzati e le buone pratiche testimoniano una realtà imprenditoriale in grado di dare vitalità ad un’economia civile.
Ciò nonostante, una volta abbandonata quell’aria carica di ottimismo rimane la domanda: fino a che punto le buone pratiche possono cambiare il mondo? Sono realmente “contagiose” o circoscrivono un perimetro adatto solo a imprenditori già motivati ad un’economia civile? Durante l’incontro con Franco Fassio la giornalista Elisabetta Soglio ha centrato la domanda fondamentale: «Per mangiare sano bisogna essere ricchi? I cibi a Km0 hanno una spesa economica alta. Esiste questa contraddizione nel mercato attuale?». La risposta di Fassio è stata eloquente e illuminante in merito: «Certo, esiste questa contraddizione, ma solo perché l’economia non adotta il buonsenso, perché non è buonsenso che i cibi più sani costino di più».
Ed ecco la pietra di volta dell’intero edificio che, per seguire la metafora del Quinto ampliamento, si vorrà costruire: un mercato fondato sì sul profitto, ma circoscritto all’interno del buonsenso. Ed ecco spiegato il valore della resilienza: far adattare le persone ai ritmi del mercato (e le sue mode) per non far adattare il mercato.
La domanda è questa: quanto buonsenso sarà necessario (e sufficiente?) per piegare un sistema per niente predisposto alla solidarietà e alla cooperazione?
Andrea Bertolino