Pubblichiamo l’intervento della psicoanalista Antonella Ramassotto, vicepresidente Centro Psicoterapeutico Te.C.O. (www.centroteco.it), sulla vicenda di Giulia Cecchettin
Giulia è stata uccisa a coltellate il giorno prima di laurearsi. Il giorno prima di tagliare il traguardo che l’avrebbe avviata sulla sua strada. Poi è stata presa in braccio, deposta sulla riva di un lago e coperta con un sacco nero di plastica. Pietà? Vergogna? Amore? Il suo assassino l’amava. L’ha uccisa perché l’amava e non poteva fare a meno di lei.
È l’amore al tempo del colera. Oggi il colera si chiama indifferenza e infetta la società in ogni sua piega. Non mi riferisco a quel tasso fisiologico di indifferenza difensiva che non di rado può aver spinto ciascuno di noi a girare la testa dall’altra parte. Parlo della verità atroce che ne arma la struttura e rivela l’indifferenza come figlia di un rifiuto radicale della differenza, in ogni sua forma. È questo che la rende virale e sta infettando il nostro mondo di razzismo, intolleranza, odio.
Uomini che odiano le donne non è solo il titolo di un romanzo famoso di Stieg Larsson, è anche una cruda realtà. Come è una realtà che spesso un amore finisce nell’odio. Non è un fenomeno raro e questo ci dice che porta alla luce qualcosa che riguarda la struttura stessa dell’amore. L’amore è condivisione, ma è proprio questa parola a rivelare quanto si nutra tanto di unione quanto di differenza. C’è il con del tempo dell’unione, che riporta al momento dell’incontro con uno sguardo in cui ci si riconosce. Ma c’è anche la divisione, che parla di un altro tempo che lo accompagna, è il momento disarmonico in cui il partner si mostra nella sua assoluta alterità. Amare significa andare incontro all’altro, amarlo per ciò che ci accomuna, ma anche essere attratti, incuriositi, affascinati dalla sua differenza. Se questo non accade e l’unione si basa solo sul sostegno speculare di uno sguardo adorante, l’inevitabile apparire della differenza segnerà la fine di un rapporto tra un fragore di specchi infranti.
A questo punto si impone una scelta: interrogarsi sulle cause della fine di quel rapporto, o trovare un colpevole. Sappiamo che la seconda opzione, che lascia intatta l’immagine di sé mettendo tutto in carico all’altro, è molto gettonata e la ritroviamo a tutti i livelli: sociale, politico, amoroso. In questo caso assistiamo a vicende di separazione che durano anni, tra reciproci rancori. Tuttavia fare dell’altro un oggetto d’odio è comunque un modo di lasciarlo esistere, pur nell’insopportabilità della sua differenza.
Perché uccidere? Perché cancellare con la vita di una donna l’esistenza di quel limite che il suo stesso vivere aveva reso presente?
Ogni tempo ha i suoi figli e il nostro è un tempo che coltiva l’illusione di poter superare ogni limite.
Freud diceva che la differenza tra un errore e un’illusione sta nel fatto che un’illusione è un errore che si nutre del desiderio di crederci. I giovani che ascolto sono ben consapevoli delle proprie fragilità e proprio per questo il tema della forza è all’ordine del giorno. La risposta è spesso, troppo spesso viziata dal mito contemporaneo di una compattezza inscalfibile. La forza è farcela da soli, non aver bisogno dell’aiuto dell’altro. Sono i figli del nostro tempo, che vorrebbe genitori da manuale. Un tempo che ha prodotto adulti resi fragili da una sorta di ansia da prestazione. L’adulto che non riesce a farsi testimone della forza di chi sa essere all’altezza dei propri limiti, abdica alla funzione etica di aprire la strada alla ricerca. Nutre l’illusione di una completezza autarchica e paralizzante. In questi casi è frequente che il giovane finisca per vivere le proprie mancanze e fragilità come una vergogna. La vergogna è difficile da sopportare, allora la si maschera dietro atteggiamenti aggressivi, o si fa forte di un sapere codificato, fatto di certezze testarde che nutrono la ripetitività dei comportamenti di quanti non riescono a trovare in sé la forza di un limite.
In questi giorni si è parlato molto degli stereotipi patriarcali che assegnano alla donna ruoli subalterni, di sostegno ancillare al potere maschile. Tuttavia il moltiplicarsi allarmante dei femminicidi ci fa assistere allo scatenarsi di una tempesta perfetta, dove i codici sclerotizzati del patriarcato trovano un paradossale potenziamento nell’incontro con le forme del sapere contemporaneo, che ha modificato i rapporti spazio-temporali. Si è passati dalla scansione temporale propria della parola, all’immediatezza dell’immagine. Il sapere contemporaneo si condensa in un istante e per questa via un’immagine sul cellulare può rovinare una vita. Rimane lì, per sempre, su un altro pianeta inaccessibile alla parola. Quando non si può contare sulla forza di una parola che sa fare del suo stesso limite un’occasione per rilanciare il discorso, non rimane che affidarsi allo specchio come unico sostegno della propria identità.
In questo caso la tempesta perfetta ha mietuto due vittime.
Filippo è geloso, non sopporta che Giulia si distragga da lui. Lei è lo specchio delle sue brame e non può credere al suo amore se non ne vede il riflesso nei suoi occhi. Lei lo lascia. Ha dei progetti: dopo la laurea se ne andrà altrove. Filippo ha tempo fino a quel giorno, fino al giorno della laurea per convincerla: minaccia di uccidersi. Lei è tutto per lui. Deve essere tutta per lui, perché il senso della sua vita è custodito nel selfie eterno del suo sguardo. O tutto o niente: le due facce del senza limite. Le due facce dell’indifferenza: ti riduco a quel niente a cui tu stessa mi hai ridotto distogliendo lo sguardo da me. Il tempo scade e Giulia non cambia idea. Il suo sguardo è rivolto altrove, al suo futuro, e Filippo non si ritrova più. La uccide e seppellirà in prigione la sua vita ormai senza senso.
Il passaggio all’atto aggressivo si ripete in un rituale consolidato, che ripropone ogni volta l’epilogo drammatico di un riconoscimento inseguito allo specchio. Cercarsi nell’altro porta necessariamente a ritrovarsi altrove. La minima discrepanza che lascia trapelare la soggettività dell’altro, la sua alterità, può diventare insopportabile e la via più breve è eliminare il testimone di questa differenza. È sempre una via breve, non importa quanto tempo trascorre tra il momento in cui ci si sente cadere e l’eliminazione di chi ha negato il suo appiglio. I tribunali discuteranno di premeditazione, ed è giusto così. In realtà nulla è concesso alla meditazione che presuppone il ricorso alla parola, con i suoi ritmi e i suoi inciampi che potrebbero indurre a cercare un ascolto. Tutto si decide in un attimo: quando lo specchio tradisce, va in frantumi.
Giulia è morta per mano di un uomo, con la gonna impigliata negli stereotipi patriarcali a cui non è riuscita a sfuggire in tempo. Come tante li ha respirati fin da bambina portati da venti impercettibili, che a volte sembrano carezze.
Giulia non ne può più della gelosia di Filippo che vuole tenerla legata a sé, lo lascia e lui minaccia di uccidersi. Ha paura e ne parla con le amiche. Giulia conosce il valore della differenza: non lo ama più, ma gli vuole bene, non vuole che soffra. Così lo incontra, gli parla, cerca di far capire le sue ragioni a un uomo che non vuole sentire ragioni. Ma lei insiste e con caparbietà materna cerca di attutire il suo dolore. Perché anche lei è una vittima. Non è ancora morta, ma è già vittima inconsapevole di quel pregiudizio che vuole la donna in ritirata per far posto alla madre. Di quel pregiudizio che non sa separare la donna dalla madre; non la vuole separare. Le confonde. Le fonde, affinché la coperta calda delle cure materne soffochi l’indomabile del femminile, smorzi i suoi colori, attutisca la forza dei suoi desideri. Così Giulia ci ha provato fino alla fine. Come tante è andata a morire sfiorando il cespuglio del pregiudizio, senza riuscire a distinguere le spine che graffiano, dal profumo della sua gentilezza.
Antonella Ramassotto
psicoanalista, vicepresidente Centro Psicoterapeutico Te.C.O.