L’abisso di Davide Enia fino a domenica 10 marzo al Teatro Gobetti di Torino
L’abisso è uno straordinario viaggio nella realtà di Lampedusa, nel mare di Lampedusa, che chi assiste allo spettacolo si trova a compiere. Siamo a teatro, certo, ma chi è sul palco non sta raccontando una storia scritta da altri, un bel testo confezionato bene, sta portandoci dentro la sua storia, ciò che ha visto, come l’ha visto. Tutti parlano di sbarchi, di barconi, di morti, ma bisogna esserci per capire cosa succede quando vedi un gommone affondare, che sensazioni provi, prima, durante e dopo. Davide Enia è stato a Lampedusa molte volte negli ultimi anni, parlando con gli abitanti, i pescatori, i soccorritori, i medici, i militari, i migranti, con il custode del cimitero che trova un posto e una croce per tutti indipendentemente dal colore della pelle e nel romanzo Appunti per un naufragio, Sellerio, ha trovato le parole per narrare l’indicibile, il personale mancamento, intrecciando la vicenda con il particolare rapporto con il padre pensionato e lo zio Beppe, siciliani come lui.
Non c’è spazio per considerazioni politiche, sociali o storiche, ci sono valori più antichi, affetti e legami inconsci e innati e c’è una catastrofe in mare, davanti ai nostri occhi. La legge del mare non riguarda destra e sinistra , lo sa anche il sommozzatore destrorso che si butta senza sosta per i recuperi.
Spiega Enia in una intervista: «Nascerà una epica di Lampedusa. Sono centinaia di migliaia le persone transitate dall’isola. A oggi, manca ancora un tassello nel mosaico di questo presente, ed è proprio la storia di chi migra. Le nostre parole non riescono a cogliere appieno la loro verità. Possiamo nominare la frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei documentari. Le nostre parole possono raccontare di mari che curano e di mani che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle persone trucidate nel deserto dai trafficanti d’uomini e la quantità di stupri che può subire una ragazza in ventiquattro ore. Saranno loro a spiegarci l’esatto prezzo di una vita in quelle latitudini in Libia e delle botte prese a ogni ora del giorno e della notte, della visione improvvisa del mare dopo giorni di marcia forzata e del silenzio che si impone quando s’alza lo scirocco e si è in cinquecento in un peschereccio di venti metri che sta imbarcando acqua da ore. Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi.»
Nel trasformare il libro in spettacolo teatrale Enia utilizza pochi, semplici ma efficacissimi elementi: le giuste sottolineature del chitarrista Giulio Barocchieri, i gesti e il ritmo dell’arte antica dei “cunti” siciliani, l’intensità di un racconto che è ormai parte di sé e si conclude con la rievocazione della mitica traversata della principessa Europa dalla Fenicia a Creta a dorso di un toro. Siamo tutti figli di una migrazione.
Francesco Curzio