Riceviamo dalla Casa delle donne di Ivrea.
E’ di questi giorni il cinico paragone di una lavoratrice interinale e incinta con l’auto aziendale in leasing. Se si ferma, si sostituisce. Ed è l’insieme di fattori che fa rabbrividire e riflettere. Intanto, la Vibac, l’azienda in cui lavora la donna, è una multinazionale canadese con più di 1000 dipendenti sparsi, grazie alla globalizzazione, in filiali in Canada, Italia e in Serbia. Luoghi con salari bassi e contratti aleatori, come quelli interinali o di somministrazione, tutti ovviamente a termine. Il precariato diventato sistema. Lavoro in affitto che non offre garanzie, solo profitto.
E, nonostante questi benefit unilaterali, la geografia delle nostre periferie è tutta di capannoni abbandonati perché c’è sempre il paese più povero, più allettante, con leggi più discriminanti.
Le donne, rese ancor più vulnerabili e penalizzate dal loro destino biologico, in Italia vedono il tasso di occupazione tra i 15-64 anni del 52,5% quando quello medio europeo è del 65,8% (dati 2023). Senza dimenticare che, al momento dell’assunzione, vengono richieste le dimissioni in bianco per tutelare l’azienda da malattie, infortuni e gravidanze.
Già infortuni, come quello del giovane indiano che ha perso un braccio, impigliatosi nella macchina confezionatrice, e che, invece di essere soccorso, è stato scaricato (lui e il suo braccio) sulla porta di casa, dopo che gli era pure stato sottratto il cellulare. Il grave e colpevole ritardo nel chiamare i soccorsi ne ha provocato la morte. Qui neppure il contratto interinale, un lavoratore in nero, per il quale il padrone, con uguale cinismo, ha detto che si è trattato di una leggerezza, che non doveva avvicinarsi alla macchina. E in quella fattoria, lavorano, guarda caso, otto indiani e alcuni rumeni. Tutti immigrati: quell’ammasso di povertà, bisogni e sogni, dove i caporali pescano la mano d’opera per i profitti degli agricoltori e il guadagno della loro illecita intermediazione.
E’ una catena di orrori che arriva sino alle coste della Calabria, con l’ennesimo naufragio: 65 morti, tra cui 21 bambini e mamme, non a caso afgane. Triste coincidenza con la lavoratrice della Vibac dal contratto capestro e la fuga dall’Afganistan, accumunate dalla speranza di un futuro migliore.
Donne, e allora come non pensare alla premier che, di bianco vestita, gira indefessa per l’Europa a promuovere il nostro paese. C’è da chiedersi cosa promuova di eticamente sostenibile, quando il trattamento dei prossimi migranti sarà il lager albanese. Oppure alla lamentosa ministra Roccella che, piangendo sull’inverno demografico e sui bambini che non nascono, ne lascia morire 21, vivi.
Orrore e cinismo in una sola settimana, una catena che sembra inarrestabile: morti, ingiustizie, discriminazione … fino a quando?
Casa delle donne di Ivrea
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