Di ritorno dall’incontro della rete globale dei sindacati di FCA a Detroit, il segretario della Fiom di Torino descrive i movimenti nel settore dell’auto e le condizioni di lavoro
Detroit è una città particolare, un punto di osservazione utile per capire cosa succede all’industria e ai lavoratori dell’auto. Ho avuto l’opportunità di passarci qualche giorno, dal 14 al 17 marzo, con una delegazione della Fiom, in occasione dell’incontro della rete globale dei sindacati di Fca: molte presenze importanti, dai brasiliani ai polacchi agli argentini, e qualche assenza (i serbi, i turchi, ma anche i canadesi). Due novità importanti: negli anni scorsi questo incontro si è sempre svolto a Torino, e farlo a Detroit non è stato né semplice né scontato, inoltre per la prima volta è intervenuto anche un rappresentante dell’azienda, benché Fca – a differenza di quasi tutti gli altri grandi costruttori – non riconosca ufficialmente la rete sindacale globale.
Detroit – sede delle “big three” General Motors, Ford e appunto FCA – era una metropoli da 2 milioni di abitanti: la crisi dell’auto ha letteralmente dimezzato la popolazione! Il Comune stesso è fallito e interi quartieri sono stati abbandonati: uno spettacolo desolante e, a tratti, davvero sinistro.
Una città comunque sospesa tra passato e futuro: i murales commissionati da Ford a Diego Rivera, messicano e comunista, ma anche il recente grattacielo della General Motors – che è anche centro commerciale – sulla riva del fiume Detroit che guarda sull’altra sponda Windsor, località già canadese.
Anche la Chrysler era fallita, poi Obama ha coinvolto la Fiat nell’operazione di salvataggio che ha portato alla nascita di FCA, Fiat Chrysler Automobiles.
Eppure Detroit resta centrale nelle vicende industriali americane e mondiale: GM ha appena ceduto Opel ai francesi, e proprio nei giorni in cui eravamo in città Trump ha incontrato – in un hangar dell’aeroporto per evitare contestazioni – i capi delle “big three” promettendo loro sconti sulle emissioni e così venire incontro agli interessi delle imprese (e molto meno dell’ambiente), in cambio di investimenti e assunzioni negli Usa.
La verità è che il settore dell’auto resta cruciale per quantità – si va verso i 100 milioni di vetture prodotte, con la Cina che ormai ha sopravanzato gli Usa – e tasso di innovazione tecnologica e quindi di investimenti: si veda la velocità che ha preso la corsa all’auto elettrica e alla guida senza conducente, con l’entrata sullo scacchiere di nuovi attori, come Apple e Tesla.
Tutti questi processi incidono anche sui lavoratori, e su chi cerca di rappresentarli: l’Uaw, il sindacato dell’auto americano, è lo specchio di grandi contraddizioni. Un sindacato confinato nel nord, Michigan e Ohio soprattutto, dove le tre big three hanno la maggior parte degli stabilimenti, ma assente nel sud degli Stati Uniti dove si sono insediati massicciamente i costruttori europei e asiatici: la legge americana impone che se un sindacato intende “entrare” in una fabbrica deve ottenere l’ok del 50% più uno dei dipendenti tramite un referendum, e ad oggi, complice una violenta campagna reazionaria non ci è riuscita da nessuna parte. Eppure si tratta di un sindacato molto collaborativo, che alla Chrysler ha accettato di dimezzare le retribuzioni dei nuovi assunti, ma che l’anno scorso ha visto i lavoratori bocciare l’ultimo contratto aziendale che è stato poi oggetto di una nuova trattativa.
Abbiamo visitato lo stabilimento di Jefferson, quattromila operai che costruiscono Jeep e pick-up: uno stabilimento medio, né nuovo né troppo vecchio. Eppure alcune cose colpiscono: molti lavoratori stanno sulla linea di montaggio senza scarpe di sicurezza né tute da lavoro, l’ergonomia è molto approssimativa, non esiste la mensa e si mangia su tavoli collocati a bordo linea. A Jefferson i turni sono di 10 ore per quattro giorni alla settimana e non ci sono limiti allo straordinario nei giorni di riposo, weekend compresi.
Insomma la strada è tuttora in salita, come dappertutto, benché rispetto a loro noi siamo la periferia dell’impero. Ma lo tsunami della globalizzazione ha colpito duro senza guardare in faccia nessuno: se è vero che con l’ultimo contratto il gap salariale tra vecchi e nuovi assunti verrà lentamente recuperato, benché non del tutto, resta il fatto che in Messico il costo del lavoro è un quinto o addirittura un sesto di quello statunitense.
E il ciclone Trump ha rimesso tutto in discussione, spiazzando un sindacato tradizionalmente democratico – che aveva scommesso su Sanders e non sulla Clinton – e puntando a rappresentare direttamente i lavoratori dell’auto. Insomma la partita è aperta, senza esclusione di colpi.
Federico Bellono