Un giudizio netto e inequivocabile del professor Massimo L.Salvadori sull’attuale situazione della sinistra, la cui sconfitta elettorale “a domino” in tutt’Europa avrebbe radici profonde
«Sono qui nella veste di elettore disorientato, prima ancor che come giornalista». C’è da scommettere che quasi tutti i presenti all’incontro del Forum Democratico del canavese di martedì 16 gennaio si siano riconosciuti nelle parole introduttive del direttore de LaSentinella del Canavese Alessandro Moser che ha aperto la serata sul tema: “La Sinistra italiana divisa”.
L’onere della discussione è toccato a Massimo L. Salvadori, professore emerito di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Torino che ha esordito dicendo: «Dopo che Moser ha dichiarato di essere un cittadino disorientato, io non posso che dire di essere un professore disorientato».
La parola d’ordine usata da Salvadori è una, declinata in diversi modi e con diverse sfumature: debacle, sconfitta, disfatta e non sono in Italia, ma in tutta Europa. Meno di vent’anni fa i socialdemocratici governavano o guidavano coalizioni in 13 degli allora 15 membri dell’Unione europea. Guardando al trascorso 2017 la sinistra è risultata in minoranza o comunque con una perdita elettorale in quasi tutti i 28 stati. Il caso del partito socialista francese risulta essere il più eclatante, ma il verdetto del professore si spinge oltre il risultato elettorale: «non tutte le crisi sono per forza significative, in quanto alcune di essere esprimono solo un momento difficile, ma per quanto riguarda la socialdemocrazia in tutta Europa siamo in uno stato di profonda depressione».
Un giudizio netto, impossibile da fraintendere; secondo Salvadori nemmeno le «luci di speranza» incarnate dalle figure del socialismo alla Sanders in America e del fenomeno Corbyn nel Partito Labourista inglese possono competere con uno «scenario che più nero non si potrebbe».
Secondo Salvadori la storia di questa debacle avrebbe un’origine storica, profonda, più volte raccontata, ma mai realmente elaborata e cominciata negli anni ’80 del ‘900 con l’elezione di Margaret Thatcher, la sua bibbia del neoliberismo e il quasi contemporaneo trionfo del reaganismo. Simboli, ovviamente, di un modo di concepire l’economia, il lavoro, la redistribuzione della ricchezza e della politica che sono sopravvissuti e sono risultati vittoriosi su uno scontro che avrebbe ammesso un solo vincitore. Nel 1989 il muro di Berlino venne abbattuto e sotto le sue macerie venne sepolto il comunismo, «lasciando un messaggio inequivocabile: nessuno mosse un dito per difendere quei regimi. Il crollo del comunismo è una delle motivazioni più segnanti, in quanto si è tradotto nel trionfo del capitalismo, nell’ascesa degli Stati Uniti d’America e di una globalizzazione dei mercati transnazionali».
Messa da parte la storia passata rimane l’analisi presente che Salvadori non rinuncia ad affrontare: «I partiti socialdemocratici europei si erano formati all’interno di Stati nazionali, ma quando si è sviluppata la globalizzazione ciò ha significato che il potere decisionale che conta, ovvero dove e come produrre e distribuire la ricchezza, è caduto nelle mani di una plutocrazia sovranazionale», rendendo gli Stati nazionali meri stati in cui amministrare gli affari delle oligarchie internazionali.
Questo ragionamento è chiaramente grossolano, ma nella sua semplicità esprime con chiarezza un pensiero che già nel 1988 era stato elaborato, se pur in forma diversa, dal filosofo francese Andrè Gorz che scriveva: «Quando si mantiene al potere [la sinistra, ndr] lo deve sovente (in Italia, Austria, Spagna) alla capacità di far accettare al movimento operaio la necessità di riforme (o di contro-riforme) liberaleggianti. Governa in nome dell’efficienza e della coerenza tecnocratica. […] In breve, della sinistra, o del socialismo, non ha più che il nome, e lo discredita».
Parole che provengono da un altro secolo, ma che si incontrano perfettamente con le riflessioni di Salvadori il quale, purtroppo, non riesce ad andare fino in fondo a questo ragionamento, non riconoscendo come anche il Partito Democratico sia caduto, negli anni al governo, preda di questo meccanismo che ha reso il primo partito socialdemocratico italiano esecutore informale “di affari delle oligarchie internazionali”: l’abolizione dell’articolo 18, la liberalizzazione dei voucher, l’aumento della “flessibilità” del mercato del lavoro (che per quelli meno tutelati significa precarietà a vita), per non parlare della proliferazione di quel micro-mondo economico che si nutre di contratti di somministrazione, tirocini a 500€ al mese o stage introdotti dall’alternanza scuola-lavoro del tutto gratuiti. Una serie di riforme perfettamente allineate alle esigenze di un capitalismo finanziario che dopo il 1989 ha vissuto una considerevole accelerazione e che ancora nel XXI secolo rema per eliminare diritti dei lavoratori considerati obsoleti, come già chiarì perfettamente lo studio del 2013 della società finanziaria JPMorgan.
Sulla situazione della campagna elettorale italiana queste riflessioni si perdono, pur non scomparendo, dietro i vari personalismi: sono infatti bastate poche parole su Renzi e sul “renzismo” da parte di Dario Omenetto (Mdp, Liberi e Uguali) per scatenare rumori e indignazione tra i presenti (quasi tutti anziani, al netto di qualche eccezione), dimostrando come esista, al momento, una quasi totale incomunicabilità tra le due anime del centro-sinistra italiano divise negli slogan, ma forse poi non così distanti nei contenuti.
Andrea Bertolino