Fumata nera al secondo incontro al Ministero dell’economia sulla cassa integrazione richiesta da Comdata per 63 lavoratori della sede di Ivrea non assunti da Inps Servizi: l’azienda rifiuta la richiesta delle parti sociali di ridurre la percentuale di cassa.
La vicenda Inps è solo l’ultima in ordine di tempo. E’ almeno dal 2015 che questo giornale segue le vicende di Comdata. Nei primi anni i problemi riguardavano soprattutto le modalità di alcune acquisizioni (Innovis, call center Vodafone) e le condizioni di lavoro (ritmi pressanti, vessazioni, difficoltà ad organizzare i tempi di vita). Le prime han visto mobilitazioni e ricorsi in tribunali, le seconde sono rimaste praticamente invariate negli anni.
Nessuno nella nostra città, salvo rare preziose eccezioni, ha mai portato la giusta attenzione sul lavoro alienante e precario dei call center. Eppure Ivrea è sede di una delle più grandi aziende di call center italiane, Comdata appunto, che dal dicembre 2015 è controllata dal fondo finanziario statunitense Carlyle.
Nel 2018 arrivano anche problemi occupazionali. La situazione esplode con la principale commessa, il 187 Tim, che non garantisce volumi e continuità. Comdata prima lascia a casa 250 interinali (lavoratori usati come fossero macchine che attivi quando ti servono), poi chiede ai dipendenti di stare a casa prendendo ferie. “E se per una volta provassimo a mobilitarci prima che scoppi l’emergenza?” ci chiedevamo da queste pagine. Nulla si fece e puntuale alla fine dello stesso anno arrivò la dichiarazione shock di 200 esuberi nella sola sede di Ivrea. In quell’occasione ci fu una importante mobilitazione, rimasta però se non solitaria quasi. E, come da copione, l’azienda magnanima rinunciò a licenziare, ma aprì una procedura di cassa. Da allora in avanti probabilmente Comdata non ha mai vissuto dei periodi senza una procedura di cassa aperta.
L’azienda è in balia dei suoi clienti-committenti che variano i volumi delle chiamate senza regole e sono sempre alla ricerca del costo minimo, e a pagare son sempre gli operatori con la pianificazione turni a breve termine (una settimana per l’altra spesso), con richieste di uscita anticipata per mancanza di chiamate, telefonate la sera per chiedere a chi in ferie o di riposo di essere presenti il giorno dopo, uso di contratti interinali frazionati nella giornata (c’era chi lavorava un paio d’ore al mattino e un altro paio al pomeriggio e chi abitando lontano rimaneva in auto nel parcheggio a mangiarsi un panino).
Per questo oggi non si può che provare una certa insofferenza davanti ad un tardivo interessamento sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici Comdata da parte delle istituzioni e della politica locali. I 63 dipendenti Comdata che lavoravano per l’Inps ma che l’Inps non ha assunto, altro non sono che la conseguenza del mancato interessamento e della mancata denuncia nei tempi opportuni di un fatto inaccettabile: Inps non ha applicato la clausola sociale! Fatto ancor più grave perché operato da un ente pubblico. Almeno un anno fa ci si doveva mobilitare. Sindaci, assessori, politica, e anche sindacati che di fronte ad una realtà così radicalmente contro i lavoratori deve adottare azioni radicali. Non si può pensare che un’azienda, a maggior ragione se posseduta da un fondo finanziario, cambi i suoi programmi perché l’amministrazione comunale scrive una lettera chiedendo la “massima disponibilità” per giungere ad un accordo a tutela dei lavoratori. Giusto e benissimo averlo fatto, un primo passo, ma non ci si può rammaricare della mancata considerazione dell’azienda, non siamo in un mondo ideale, ma nel feroce mercato del lavoro che ha superato il capitalismo produttivo per abbracciare quello finanziario, alla fine sempre tossico per i lavoratori.
Cadigia Perini