Fare teatro in carcere è un’esperienza formativa umanamente ricca e sorprendente.
Avverto fin dalla prima riga voi lettori e lettrici che questo articolo ha due diversi destinatari: i lettori e le lettrici di Varieventuali e i redattori de La Fenice. Avrei potuto scrivere due articoli, mi direte, ma no, vi rispondo, preferisco così, voglio potenziare al massimo il dialogo fra questi due canali. Quindi, certi commenti tra parentesi saranno forse poco trasparenti a coloro che non hanno letto questo articolo, io però prometto che cercherò di chiarirli man mano, almeno spero. Invito caldamente voi, lettori e lettrici, a leggere il suddetto pezzo, per seguirmi meglio.
Durante la scorsa primavera è arrivata l’occasione di accettare una sfida: era stato aperto un bando (PON) per un laboratorio teatrale di trenta ore da effettuarsi presso la Casa Circondariale di Ivrea. D’impulso, ho mandato il curriculum e… sono stata scelta. A quel punto ho realizzato l’impatto del mio gesto e, devo ammettere, ho avuto paura di aver fatto il passo più lungo della gamba (un interessante proverbio da mettere in scena, Saverio, provateci). Tipico mio buttarmi a capo fitto in un progetto nuovo e farmi prendere dal panico un attimo prima di iniziare.
Per molti anni ho condotto un laboratorio teatrale presso l’Unitre ad Ivrea, quindi, la mia non era paura di non sapere cosa fare, era timore di non avere le capacità necessarie per affrontare quella particolare situazione. Sarei stata in grado di sospendere il giudizio, così da potermi relazionare in maniera utile e costruttiva con persone alle quali è stata tolta la libertà (qualsiasi ne sia la ragione)? Persone che vivono in un luogo per me inconcepibile, fatto di sbarre, celle, pesanti serrature e regole molto rigide (è necessaria l’autorizzazione per qualsiasi oggetto da portare oltre la guardiola, anche un semplice foglio di carta). Io che a casa mia lascio sempre le porte aperte, io che ho sempre avuto una viscerale avversione per ciò che è chiuso a chiave, sarei riuscita a stare in un luogo del genere senza sentirmi totalmente sperduta? E soprattutto sarei stata capace di soddisfare le aspettative chi mi stava di fronte? Ho sempre pensato che per gestire certe situazioni servisse un’apposita formazione ed io certo non l’avevo. Avevo la mia buona volontà, la mia empatia e la mia sana dose di pazzia (la pazza è lei, vero ragazzi?). Insomma, nella mia testa si affacciavano mille domande e mille dubbi (su me stessa), anche se cercavo di non darlo a vedere.
A settembre si doveva cominciare e a settembre si è cominciato. Un bel giovedì sono entrata per la prima volta (non la prima in assoluto, ma la prima da insegnante) nella Casa Circondariale di Ivrea, affrontando subito uno dei miei problemi atavici, cioè la totale mancanza di senso dell’orientamento, che, in quel labirinto di porte, chiavistelli e corridoi tutti uguali, non è cosa da poco. Per fortuna il corso prevedeva la presenza di una tutor (una persona fantastica). Avevo preparato la prima lezione senza avere la minima idea di chi mi sarei trovata di fronte: sapevo che avremmo fatto conoscenza e poi qualche piccolo esercizio di improvvisazione, tipico nella fase iniziale di un corso di teatro. Io uso la messa in scena di proverbi, un divertimento assicurato. Di solito si ride a crepapelle (ed è stato così anche stavolta). Ero in una botte di ferro (vabbè, no, questo proverbio non è appropriato), almeno avevo un programma, anche se tre ore sono lunghe da riempire (quello era il tempo di ogni lezione). Dopo aver espletato le formalità del caso (l’arrivo al piano e l’appello da parte dell’agente di turno), stavo finalmente per conoscere i miei allievi (con grande sorpresa avrei scoperto da lì a poco che, in realtà, alcuni di loro li conoscevo già, perché li leggevo su La Fenice). Davanti a me seduti in semicerchio c’erano tanti volti curiosi e attenti, ma soprattutto tante voci. Voci tonanti, voci leggere, voci di ragazzo, voci di uomo, voci rispettose, simpatiche, timide, ardite, volenterose, voci piene di colori. Voci che, da subito, mi è piaciuto ascoltare. Voci a cui mescolare la mia. Del resto, il laboratorio era intitolato: le voci umane.
Certo, devo ammettere che quelle prime tre ore in un ambiente con le sbarre alle finestre non sono state facili, ma la voglia di fare e di giocare hanno avuto la meglio. Dopo poco tempo, le sbarre alle finestre sono pian piano crollate lasciandoci liberi di guardare insieme un orizzonte tutto da scoprire e da costruire. E come sempre mi capita in situazioni nuove e impegnative, mi sono sentita presto a mio agio, coinvolta, pronta ad andare avanti anche per 300 ore (manco una pausa vi facevo fare!). E naturalmente, altrettanto presto, i loro nomi mi sono diventati familiari (sì, lo so che non è proprio proprio vero, che un po’ vi confondevo, vi avevo avvertiti che sono una smemorata) e i loro volti amici e cari, come sempre mi era accaduto durante i corsi Unitre con coloro che ancora oggi considero persone speciali per me. In realtà questo aspetto mi preoccupava forse più della mia possibile inadeguatezza, perché so quanto faccio in fretta ad affezionarmi alle persone e, passate le 30 ore, loro non avrei avuto modo di rivederli, avrei dovuto congelarli nel ricordo di quel poco tempo, malgrado le tantissime idee che sapevo mi sarebbero continuate a balzare in testa. Ad un certo punto (dalla terza lezione in poi) ho smesso di farmi troppe domande e anche di avere troppe remore sul tempo e mi sono concentrata sul presente e su ciò che avrei voluto lasciare in eredità: il piacere di entrare in una storia che solo apparentemente sembra portarti fuori da te stesso ma che in realtà ti accende una luce dentro. Non so se ci sono riuscita, sicuramente tutti loro hanno acceso una luce in me. Saverio nel pezzo pubblicato su La Fenice l’ha chiamato “il valore di questo teatro” ed io credo non si potessero trovare parole più esatte per esprimere non solo il fare teatro, ma il farlo in quel particolare contesto, con quelle particolari persone, in questo particolare tempo incerto che tutti stiamo vivendo. Cercare il valore delle cose è qualcosa di cui troppo spesso ci scordiamo e non è un caso lo abbiano invece colto così bene persone nella cui realtà quotidiana mancano delle componenti che noi tutti ormai diamo per scontate, come la semplice possibilità di mangiare ciò che ci pare e non quel che “passa il convento”. Sembra così normale poter mangiare una pizza o dei biscotti, no? Per i miei allievi di teatro è stata una grande festa poterlo fare a fine laboratorio, forse addirittura più importante del laboratorio stesso, e per me è stato un privilegio grande aver contribuito affinché succedesse. Regalare la contentezza di condividere insieme il cibo, attorno ad un tavolo improvvisato, come se fossero ad un pranzo in famiglia – parole loro, non mie – ha significato davvero moltissimo. Per quanto riguarda il laboratorio in sé, abbiamo cercato di lavorare su due piccoli frammenti di Così è se vi pare di Luigi Pirandello, partendo dalla lettura della novella da cui è tratta l’opera teatrale, testi scelti perché già utilizzati in altri laboratori, a me molto familiari e pertinenti al tema delle “voci umane” (non ci si capisce nulla e va bene così, l’importante è prendersi gioco anche della ragione, accettare le nostre verità e i nostri fantasmi, imparare a viverci insieme, “pacificati” per usare parole di Pirandello). Trenta ore si sono rivelate davvero troppo poche.
Il 29 ottobre, dopo aver mangiato tutti insieme pizza, biscotti e dolcetti vari, abbiamo proposto un piccolo “as-saggio” del nostro lavoro nella sala polivalente, alla presenza di comandante, ispettore, educatrice, assistente sociale, alcune docenti e compagni di reparto (eravate terrorizzati, ragazzi, ma siete stati grandi). Alla fine, il comandante ha voluto fare un discorso di ringraziamento e complimenti, suggellato da una stretta di mano a ciascun attore, un segno che ha un significato profondo tra quelle pareti perché esprime il riconoscimento non solo di un lavoro svolto bene e con impegno, ma soprattutto la fiducia e la stima: valori, appunto, importantissimi per chi sta facendo un percorso di reinserimento nella comunità. E poi l’autorizzazione a continuare la festa con una piccola merenda tra di noi per salutarci. Tra gli ultimi biscotti e tanta emozione per aver raccolto tutto quel consenso ci siamo promessi di ripetere l’esperienza quanto prima. Infine, sono arrivati gli abbracci (li ricordo tutti, uno ad uno). E il momento di dirsi ciao.
Vi ringrazio davvero dal profondo del cuore, ragazzi (signori Agazzi, Sirelli, Laudisi, coro e musicanti) per il tempo passato insieme, per le risate, per le lunghe discussioni sul chi fa cosa, per il vostro impegno, per la musica che avete composto e suonato, per le sedie che avete spostato, per la trovata geniale del pacchetto di fazzolettini di carta usato come cellulare, per essere stati così bravi e pazienti, per ciò che ci siamo detti e per ciò che ancora ci sarebbe da dire. Ho certamente più imparato che insegnato.
Spero di rivedervi presto (che ora so arrivare da sola dalla guardiola fino a voi).
Non mollate!
Prof Lisa