Il fiore della Palestina che sboccia a Torino

Una settimana di blocchi e manifestazioni nel capoluogo piemontese. Il movimento non si fa intimidire, ma è necessario che il germoglio della Palestina continui a fiorire anche domani

A una settimana dalla notte del 1 ottobre, quando Israele bloccava le navi della Global Sumud Flotilla, Torino non ha mai smesso di scendere in Piazza. In migliaia hanno risposto quel mercoledì, radunandosi in piazza a poche ore dalla notizia dell’assalto, per poi invadere le strade della città e raggiungere Porta Nuova. L’avevano promesso: se bloccate la Flotilla noi blocchiamo tutto. L’hanno fatto davvero. Le proteste in corso, iniziate già a fine settembre, non solo non si sono fermate, ma si sono intensificate.
In piazza le persone ci sono tornate praticamente tutti i giorni seguenti, fino all’incredibile sciopero di venerdì 3 ottobre, con almeno 100mila persone a bloccare le vie del centro. E ancora nei giorni successivi, sera dopo sera. Anche il 7 ottobre, quando il questore la manifestazione l’aveva vietata, e invece si è tenuta lo stesso perché erano troppi i partecipanti, e bloccarli sarebbe stato peggio che lasciarli sfilare. Anche l’8 ottobre, quando la stanchezza sarebbe stata comprensibile, sono comunque scesi ancora, a migliaia, per le vie del centro.
La città è ormai semi paralizzata da due settimane. Studenti, sindacati di base, collettivi e persone comuni hanno dato vita a una mobilitazione continua, come in città non se ne vedevano da decenni.
Il fronte della protesta è ampio e variegato, ma le richieste sono le stesse: fine del genocidio e dell’apartheid, stop agli accordi economico militari con Israele, libertà per i Palestinesi di vivere e autodeterminarsi.
Grande la risposta popolare: ovunque i cortei vadano, qualunque strada blocchino, non sono rabbia e fastidio ciò che incontrano. Le auto e i tram fermi in coda suonano la loro solidarietà, dai balconi di mezza città pendono bandiere della Palestina, vecchie signore si affacciano alla finestra per applaudire i cortei. La causa palestinese, con i suoi oltre 70 anni di resistenza non solo verso Israele, ma verso tutto l’apparato militar – industriale dell’Occidente, è entrata nei cuori della gente come niente era riuscita prima d’ora a fare, spingendo in piazza anche chi una manifestazioni da dentro non l’aveva mai vista. Le immagini del genocidio hanno fatto riscoprire alle persone, da anni sapientemente anestetizzate dal flusso di notizie su un mondo che si avvia a passo svelto verso la fine, un sussulto di umanità e presa di coscienza: la questione è semplice, se non ti smuove questo niente lo farà, o ti mobiliti oggi o hai perso per sempre la umanità. È rincuorante vedere quanti, ancora e nonostante tutto, hanno scelto di rimanere umani.

Una reazione uguale e contraria

Le mobilitazioni di massa e i relativi blocchi hanno spaventato non poco il potere, che ha infatti risposto con ogni arma retorica e non nel suo arsenale: “Volete fare il weekend lungo, scioperare non serve a niente, lasciate la diplomazia ai professionisti, gli attivisti vogliono farsi solo pubblicità, la Palestina va di moda e del Sudan non vi frega niente, i manifestanti sono violenti, e se anche un milione sono scesi in piazza gli altri 50 milioni non hanno diritto di fare la propria vita tranquilla?”
Le stesse banalità retoriche che si sentono da ormai mezzo secolo, sempreverdi senza sostanza utili a delegittimare ogni protesta. Ma stavolta non han funzionato gran che bene: le classiche armi retoriche della destra han risuonato solo all’interno del suo elettorato, ormai ridotto a grancassa delle banalità, e anzi la gente ha continuato a scendere in piazza numerosa nonostante tutto. Ai numeri truccati riportati da certi giornali non ci crede più nessuno, bastava esserci una volta per vedere come i conti non tornassero, e come il sostegno alla Palestina sia oggi più che trasversale.
Non han funzionato nemmeno i blocchi come quello del 7 ottobre, che son riusciti a spaventare solo le sigle dei partiti, ma non i manifestanti, che le strade se le son prese con la forza dei numeri.
Gli scontri che si sono verificati, oggettivamente pochi e quasi fisiologici per i numeri scesi in piazza, non hanno poi sconvolto gran che: nonostante la tentazione di dividere tra manifestanti buoni e manifestanti cattivi, con la trita retorica degli infiltrati e delle teste calde che contribuisce sempre a spezzare in due un movimento, soprattutto nella testa di chi di piazze nella vita non ne ha viste molte, la gente non ha ritenuto che un paio di episodi fossero abbastanza per smettere di scendere in piazza. Non dopo 2 anni ininterrotti di genocidio.

La strada all’orizzonte

Cosa succederà ora nessuno lo sa, ma il valore storico di queste proteste è palese. L’Italia, paese solitamente sopito, grazie alla tattica dei blocchi diffusi e all’enorme presenza di piazza, è divenuto per la prima volta da decenni un esempio da seguire per il resto del mondo. Dal Medio Oriente alle Americhe, le piazze oggi guardano noi.
L’accordo, che definire di pace è davvero difficile, promosso da Trump e che sembra essere stato accolto da entrambe le parti in questi giorni, potrebbe comunque significare la fine del genocidio in atto, una buona notizia per i palestinesi. Anche perché oggi Israele, vincitrice sul piano fisico, è rimasta completamente isolata: esclusi gli Stati Uniti, oggi più che mai vicini al collasso interno, l’autoproclamatasi unica democrazia del Medio Oriente è divenuta un paria a livello globale, e dovunque metta piede, dai palchi dei festival agli stadi di calcio, è inseguita dalle proteste e dai boicottaggi, circondata da bandiere della Palestina. Il mondo non ha intenzione di fargli dimenticare il genocidio compiuto tanto facilmente.
Cosa dovrà fare ora il movimento? L’obiettivo principale è non far sciamare questa energia, alimentando la presa di coscienza dell’uomo comune inaspettatamente risvegliatasi. La tattica degli scioperi e dei blocchi si è dimostrata non solo più efficace, ma anche più accettabile e più facilmente digeribile dall’uomo comune rispetto agli scontri di piazza. Efficace si è dimostrata anche la capacità di far fronte comune, con forze a volte molto distanti tra loro per modalità e riflessioni che si sono dimostrate in grado di condividere la piazza, senza tentare ognuna di intestarsi una protesta che è divenuta così trasversale.
Sono tutte lezioni importanti, che il movimento in cerca di un mondo migliore dovrà studiare, memorizzare e imparare a riapplicare in futuro, se vuole continuare a vivere. La Palestina ha subito un genocidio, ma ha risvegliato una sollevazione globale. Se il nostro compito è stato quello di tenere gli occhi sul genocidio, ora diventa anche quello di far crescere il seme che la Palestina ha piantato nei cuori delle persone, curandolo affinché continui a fiorire.

Lorenzo Zaccagnini