Il comitato AmiUnacittà ha elaborato una lettera aperta nella quale torna a chiedere che si discuta del tema della fusione dei comuni, ma con la consapevolezza che il percorso appare oggi più debole di quanto non fosse alcuni anni fa
«Noi del Comitato AMIunaCittà, che da quattro anni lavoriamo per promuovere la FUSIONE come strumento potente, facilitatore e promotore di sviluppo, ci domandiamo il perché di questa sordità al tema da parte delle Amministrazioni della nostra Città e del nostro territorio, perché questo pregiudiziale rifiuto ad entrare nel merito, anche solo a ragionare ed approfondire l’argomento».
È un tono amareggiato, di sconforto quello con cui il Comitato AMIunaCittà, per voce di Emilio Torri, ha scelto di declinare il comunicato inviato alcuni giorni fa agli organi di stampa del territorio. «Il tempo sta per finire» titolano i membri del Comitato che lo scorso maggio 2018 avevano organizzato il grande convegno sul tema della fusione dei comuni canavesani, approfittando della campagna elettorale per dare slancio alla questione. Un titolo che lascia presagire una sconfitta imminente, ma che i promotori forse già sanno persa in partenza.
Non che le premesse non fossero buone, ma la storia recente di questo territorio ha cominciato a prendere una piega controtendente rispetto a un paio d’anni fa, quando, nel lontano 2015, venne gettata la prima pietra per dar vita ad un futuro ente sovracomunale.
Risale al 2015, infatti, la nascita dell’Unione Eporediese, l’ente attraverso il quale i comuni d’Ivrea, Banchette, Cascinette, Fiorano e Montalto Dora avrebbero dovuto consorziare diversi servizi per metterli a comune denominatore; di quell’esperienza, nata e mai cresciuta, oggi non restano altro che macerie, troppo piccole e misere anche per poter destare una qualche forma d’indignazione pubblica.
Ma che i tempi siano cambiati lo si era già intuito alla vigilia del convegno dello scorso maggio, quando i sindaci dei comuni di Banchette, Cascinette, Fiorano e Montalto Dora, attraverso una lettera pubblica, avevano dichiarato: «L’iniziativa avviata dall’AMI, partendo dalla proposta di fondere i 58 comuni dell’area, successivamente è evoluta verso la richiesta di fusione ai soli comuni dell’attuale Unione dell’Eporediese. Il mandato ricevuto dai nostri consigli comunali è per la realizzazione dell’unione e non per la fusione con la città di Ivrea. Ai candidati sindaci di Ivrea chiediamo di non interrompere il percorso dell’Unione, di non intraprendere iniziative che avrebbero forse come unico risultato di costringere le amministrazioni aderenti ad abbandonare l’unione stessa, lasciando Ivrea sola nel confronto con altre realtà amministrative numericamente più importanti». Una stroncatura netta, senza possibilità di dialogo o di replica che aveva raggiunto lo scopo di “intiepidire” gli animi, portando gli allora candidati sindaci per la città d’Ivrea ad atteggiamenti “moderati”, di apprezzamento a parole, ma di cautela nei fatti. Lo stesso Sertoli, oggi alla guida della città d’Ivrea, era parso quello più scettico, certamente non contrario, ma meno motivato degli altri ad intraprendere un percorso di siffatta portata.
Le due fusioni intraprese in Valchiusella il 1° gennaio di quest’anno erano riuscite a infondere un cauto ottimismo circa la possibilità di realizzazione questo modello “federalista”. A gennaio, infatti, erano sorti Val di Chy (nata dalla fusione di Alice Superiore, Lugnacco e Pecco) e Valchiusa (Meugliano, Trausella e Vico Canavese).
Per due piccole buone notizie che si erano affacciate col nuovo anno nel territorio, tuttavia, un’altra si preparava a gettare nuovamente sconforto, come evidenziato dagli stessi promotori del comitato: «purtroppo è di questi giorni la notizia della liquidazione della Unione Collinare piccolo Anfiteatro morenico Canavesano, dopo il recesso di Romano, Strambino e Scarmagno. Viene così confermata la fragilità delle Unioni come strumento di governo condiviso di Comuni diversi».
Una piccola “rivalsa” nei confronti di quei sindaci che si erano pronunciati in favore dell’Unione eporediese e contro la proposta di fusione, ma che intacca profondamente il progetto dello stesso comitato AmiunaCittà.
L’Unione del piccolo Anfiteatro morenico canavesano, infatti, avrebbe dovuto costituire una delle due masse critiche sufficienti a stimolare altre unioni o fusioni territoriali; qualora fosse confluita all’interno dell’Unione Eporediese, inoltre, avrebbe potuto dar vita al primo comune canavesano di 50.000 abitanti, una cifra necessaria, a detta dei promotori, per ottenere l’accesso diretto a bandi europei senza dover passare attraverso la Regione o la Città Metropolitana.
Ad oggi, con un sindaco della città d’Ivrea non particolarmente sensibile al tema, con l’Unione Eporediese ferma (se non morta, verrebbe da dire), con l’Unione del piccolo Anfiteatro morenico in liquidazione e nessuna formazione politica che voglia issare bandiera per difendere questa visione di territorio, le possibilità di un percorso di fusione comunale rasentano lo zero.
L’appello che il comitato lancia, tuttavia, non può essere lasciato cadere nel vuoto. «Si potrebbe almeno parlarne?» domandano.
E di parlarne c’è un disperato bisogno sia perché questo genere di processi necessitano di una trasformazione culturale che non può prescindere dal dibattito pubblico (come aveva ricordato l’ex sindaco di Figline Riccardo Nocentini lo scorso maggio), sia perché la stoccata finale con cui il comunicato del comitato AmiunaCittà si chiude apre una tematica cruciale per il futuro del territorio eporediese: «Si preferisce non affrontare il problema perché si teme di perdere voti e piccoli poteri? Per elaborare e realizzare grandi progetti serve un contesto istituzionale adeguato, autorevole e competente. Per gestire il declino bastano le Istituzioni attuali».
Può sembrare una forzatura la loro, un pregiudizio alimentato dal bisogno di “portare acqua al proprio mulino”, ma il declino di cui il comitato parla è sotto gli occhi di tutti: si manifesta nel lavoro e nella mancata “ripresina” che ha portato il bacino del lavoro eporediese all’ultimo posto dei Centri per l’Impiego di tutto il Piemonte (ultimo su 32!); si manifesta nella situazione delle acque territoriali, tanto difese a parole quanto sfruttate economicamente o lasciate inaridire come nel caso del lago San Michele; si manifesta nelle scelte poco lungimiranti di un’amministrazione che pensa che qualche milione investito per costruire un supermercato valga l’aver compromesso una zona targata Unesco; infine, ma non meno importante, si manifesta nel lento e apparentemente inesorabile invecchiamento di un territorio che investe tanto in istruzione e formazione salvo poi veder migrare all’estero giovani (e anche meno giovani) menti.
Provando a mantenere un atteggiamento ottimistico i promotori del progetto “federalista eporediese” guardano con favore alla recente istituzione dell’Agenzia per lo Sviluppo del Canavese: «Viene così tentata una prima risposta operativa alla frammentazione del territorio in piccoli o piccolissimi Comuni, privi delle competenze, risorse e strutture necessarie per esprimere capacità progettuali e operative, attrattività per gli investimenti, infrastrutture adeguate e supporto politico autorevole. Occorre “fare sistema”. E l’Agenzia è un tentativo in questa direzione. Speriamo di successo». Quello che, però, ignorano è che di tentativi di “sviluppo” territoriale ne abbiamo conosciuti a dismisura in questi anni: Progetto Canavese (2005), Piano Strategico del Canavese (2007); Piano Strategico della Zona Omogenea Eporediese (2016); Piano di Sviluppo del Canavese (2017); ultima l’Agenzia per lo Sviluppo del Canavese (2019) che, al di là dei buoni propositi con cui nasce e si descrive ha alle spalle 7 anni di “lavoro” e di “studio” dai quali non si capisce bene cosa sia emerso (se non due siti internet assolutamente identici, vedere per credere (sito 1) e (sito 2)).
Di buoni propositi, tentativi, progetti abbozzati ne abbiamo conosciuti tanti, ma la voce più forte e che ha finito col produrre risultati tangibili (se pur in peggio) resta quella dei sindaci dell’Unione Eporediese che con una semplice lettera e senza troppi giri di parole avevano fatto capire che no, di fusione e di visione territoriale alternativa all’attuale percorso “campanilista” non se ne parla.
Quel che si può dire, in conclusione, è che in uno scenario politico globale in cui prevale l’isolamento e la voglia di rinchiudersi nei propri confini, l’ambizione di voler superare gli steccati comunali che da centinaia di anni separano i vari municipi è controtendente rispetto al recente corso della storia.
I promotori del comitato, tuttavia, hanno posto la domanda nei termini corretti: “attualmente, stiamo amministrando il declino”? Sembra proprio di sì ed è forse giunto il tempo che la politica si interroghi su questo punto.
Andrea Bertolino