Elena Cecchettin (come Ilaria Cucchi); quando il dolore inenarrabile diventa un fatto privato e pubblico
Il femminicidio è un omicidio di Stato (la lettera di Elena Cicchettin)
“Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto ‘non tutti gli uomini’. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.
Negli ultimi due giorni dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin sono raddoppiate le richieste di aiuto al 1522 (dalle 200 telefonate quotidiane alle 400, con picchi tra 450 e 500).
Non è che uno dei segnali che l’ennesimo (e non ultimo, ahinoi) femminicidio sta segnando, io credo, un passaggio epocale. Perché questa volta non è la stessa storia e non è la stessa rabbia per l’ennesimo orrore. E non lo è (soltanto) perché anche la narrazione non è (salvo quella degli integralisti inguaribili) la solita narrazione tossica.
A fare la differenza, a dare e a darci speranza è stata Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che ha portato ai microfoni di giornali e televisione le parole che fino ad oggi sentivamo solo nelle manifestazioni di piazza. Parole chiare, un’analisi precisa e inconfutabile della società attuale, finalmente amplificata oltre “le solite noi”.
Elena che ha definito Filippo Turetta figlio sano del patriarcato, che ha definito cultura dello stupro quella che ci nutre fin dalla tenera età, che ha invitato gli uomini, tutti, a ripensarsi, a prendere coscienza e a capovolgere il loro modo di stare al mondo.
Invocando una rivoluzione culturale che rimuova per sempre l’aggettivo “patriarcale” dall’organizzazione sociale, dall’economia, dalla politica e, ovviamente, dalle relazioni. Ovvero dall’amore.
Elena che ha fatto della morte della sorella, dell’ennesimo femminicidio non soltanto un lutto privato, ma l’occasione imperdibile di elaborare un lutto che è e deve essere collettivo. Mettendo a nudo una mancanza gravissima della politica e costringendola a farsene carico. Per tutte (e tutti) noi.
Cosa faremo noi? Di certo drizzeremo ancora di più, se possibile, le nostre antenne, saremo attente al minimo segnale di abuso, in casa, al lavoro, a scuola, nei gesti, nelle parole, nei comportamenti. Rimuovendo ogni tentativo di trovare sinonimi alla parola amore, che non ne ha. Continueremo a denunciare, a opporci ai tagli dei fondi ai centri antiviolenza, all’attacco al diritto di abortire, alle discriminazioni sul posto di lavoro.
Ma non ci basta. Non vogliamo soltanto seguire un corso di box, a ricordarci che esiste il 1522 (numero Anti Violenza e Stalking) o scaricarci una delle tante App per sentirsi più sicure quando si torna a casa la sera da sole: insomma, non vogliamo più soltanto difenderci.
Uomini, tocca a voi. A voi che vivete un privilegio, a voi che dovete rifiutare un ruolo stereotipato che vi costringe fin da piccoli ad annullare il femminile dentro voi stessi, per dimostrare virilità. Che dovete imparare ad accettare che in una relazione la donna non è un’estensione di voi stessi (o con me o con nessuno, o mia o di nessuno). Ad accettare qualcosa di così normale come la fine di una relazione.
Iniziate voi un minuto di rumore e fatene la colonna sonora delle vostre vite future.
Simonetta Valenti