Dopo due anni di smart working le sedi delle aziende si sono svuotate e attorno a loro si sono creati dei deserti. E’ necessaria una riflessione sul lavoro da casa fuori dalle emergenze.
E’ notizia di questi giorni, certo non inaspettata, chiude definitivamente la mensa di Palazzo Uffici 2 gestita dalla società Camst. Lo spostamento di Wind3 alla ICO nella primavera del 2019, con tanto di mensa dedicata, ha di fatto svuotato PU2. E un anno dopo l’esplosione della pandemia ha portato a lavorare da casa tutti gli altri. Il servizio di ristorazione, pur aperto anche agli esterni, non ha potuto che essere sospeso. Il colpo di grazia l’ha dato il mancato rientro al lavoro nelle sedi dei lavoratori anche quando la situazione dei contagi era più controllata ed erano riprese diverse attività.
Così Camst, che aveva ancora tre anni di appalto, alla fine di dicembre ha annunciato la chiusura definitiva della mensa di Palazzo Uffici. Tutte le 14 addette al servizio mensa perdono il lavoro. Un’offerta alternativa c’era, ma in sedi più lontane e con l’orario di lavoro dimezzato (12 ore alla settimana). E come sempre accade per le donne, lasciano il lavoro perché quei pochi euro al mese si spendono per metà per viaggiare mentre stando a casa si fanno altre economie. E così hanno tutte “accettato” l’uscita incentivata.
L’effetto domino
Come in altri settori, la pandemia ha avuto un effetto domino: prima si sono chiuse le sedi di lavoro, poi tutti i servizi collegati. Le aziende risparmiano, ma i lavoratori? E l’indotto? La crisi del settore della ristorazione collettiva si aggiunge infatti ad altri fattori negativi collegati al lavoro da casa. Ai vantaggi contingenti, dell’evitare contatti e quindi potenziali contagi a quelli immediati del risparmio dei costi e dei tempi di viaggio, per fare un equo bilancio, si devono sommare gli aspetti negativi o i falsi positivi.
Non è tutto oro quello che è smart
Partiamo dai falsi positivi. Molti lavoratori e lavoratrici trovano il lavorare da casa meno stressante. Non si deve correre per raggiungere il luogo di lavoro, non ci si deve trovare di fronte il collega non amato, si può lavorare in abiti comodi, nel proprio ambiente familiare, senza interferenze. Ma nella realtà non sono tutte rose … Di sicuro le donne le interferenze le hanno comunque (se non di più), infatti facilmente sfrutteranno il fatto di essere a casa per inframmezzare il lavoro d’ufficio e cura della casa (non me ne vogliano gli uomini “attivi”, è una realtà che il lavoro di cura è nella maggior parte dei casi soprattutto sulle spalle delle donne). Così quel tempo sospeso dalle incombenze famigliari che è il lavoro fuori casa, con lo smart working* svanisce.
Vi è l’illusione di star meglio per poter lavorare in qualsiasi orario e luogo, nel caso del lavoro agile, o comunque nella propria casa, nel caso del telelavoro. Ma questi sono per moltissimi lavoratori e lavoratrici, vantaggi effimeri. Si perde il concetto di fine lavoro. Nel lavoro a distanza si tende infatti ad essere sempre “operativi” (ad esempio rispondendo ad ogni ora a messaggi o mail di lavoro), a lavorare di più. Con l’evidente svantaggio di non staccare mai. Si perde poi lo scambio con i colleghi, il confronto sulle questioni di lavoro e sulla quotidianità personale e del mondo, lo scambio colloquiale mentre si prende un caffè insieme. Si pensa di poterne fare a meno sostituendo queste interazioni con qualche messaggio sullo smartphone (ecco che ritorna “smart”), con un paio di faccine. Invece l’ambiente di lavoro è un campo unico di allenamento per relazionarsi con persone differenti, che la pensano anche molto diversamente da noi, che non ci sono amiche. E’ questo per paradosso, non è negativo. Vivere in una bolla, sia essa reale o virtuale, di sole persone che ci vogliono bene, o che la pensano come noi, normalmente non aiuta la crescita e nemmeno la soddisfazione personale. «La mancata interazione sociale con altri colleghi può portare a rischi per la salute e il benessere del lavoratore, con conseguenti sensazioni di isolamento e depressione», scrive Andrea Zitelli su Valigia Blu**
Per non parlare di tutte quelle persone, la maggior parte donne, per le quali la casa non è un luogo amico. Per motivi legati al rapporto con il/la compagno/a o perché non hanno uno spazio da poter dedicare esclusivamente al lavoro.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che il lavoro a distanza non permette le tradizionali forme di aggregazione e comunicazione sindacale che possono essere sostituite solo in parte utilizzando gli strumenti telematici.
Il “luogo di lavoro”
Ma il tema principale sul quale occorrerebbe un dibattito libero, che oggi è appena abbozzato, è quello sul “luogo di lavoro”, come ben scrive Ascanio Celestini nel suo articolo su Il Manifesto del 2 gennaio, «La legge 300 del ’70 ci ricorda fin dal primo articolo che “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”. E vale la pena sottolineare che nelle prime righe si parla di “luoghi dove prestano la loro opera” i lavoratori. Con il cosiddetto smart working stiamo abbattendo questo caposaldo. Come facciamo a tutelare la sicurezza sul posto di lavoro se quel posto è diventata la nostra casa? Un angolo sul tavolo della cucina, una mensola sistemata all’ingresso o uno spazio rimediato in camera da letto? Come facciamo a tutelare le libertà sindacali se i lavoratori non si incontrano più nello stesso luogo, ma devono comunicare tramite la rete?».
Nel telelavoro/lavoro da casa il “luogo di lavoro” è l’abitazione del lavoratore. Ma chi garantisce la sicurezza di quel luogo di lavoro? L’articolo 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008 recita “I lavoratori a distanza sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali ed applicano correttamente le Direttive aziendali di sicurezza. Al fine di verificare la corretta attuazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza da parte del lavoratore a distanza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti hanno accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere subordinato al preavviso e al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio.” Non è chiaro chi debba pagare i costi per realizzare una postazione di lavoro “a norma”, sicura. E poi, ve le immaginate le ispezioni di sicurezza nelle migliaia di case dei telelavoratori quando da anni sono stati fatti tagli all’Ispettorato del lavoro e il numero di incidenti e morti sul lavoro è lì a denunciare ogni giorno lo stato di insicurezza del nostro paese?
Nello smart working si arriva poi all’estremo: il “luogo di lavoro” è ogni dove e in ogni momento, il lavoratore è imprenditore di sé stesso, non ha più un tempo per il lavoro e uno per la vita, tutto è fluido. Con buona pace del diritto alla sconnessione al quale spesso rinuncia il lavoratore per primo. Le giornate sono quindi “porose”, lavoro e vita si mescolano.
E tutta questa elasticità, fluidità, non siamo per nulla sicuri sia un bene, ce lo dirà il tempo, ma i dubbi rimangono e meglio sarebbe prevenire i danni, anche se c’è chi sostiene che le divisioni fra i due tempi, del lavoro e della vita, altro non sono che un “retaggio culturale tipico delle società industriali”.
Cadigia Perini
* smart working è uno pseudo anglicismo non esiste nella lingua inglese, almeno nell’erroneo significato che gli è stato attribuito dalla lingua italiana. Quello che noi chiamiamo smart working, traducendolo come lavoro da casa, in realtà nella lingua inglese si chiama working from home, da cui l’acronimo WFH, oppure remote working. (da www.londrainitaliano.it)
** Storia, rischi e sfide della rivoluzione “smart working” (Andrea Zitelli, Valigia Blu, 13/10/2021)
Il ritorno del lavoro da casa: cosa succede in Italia e in Europa (Andrea Zitelli, Valigia Blu, 7/1/2022)