Lettera aperta a Peter Fonda
Ehi Peter come va? Da un anno anche tu te ne sei andato, varcando la soglia di quel cielo dove gli uccelli cantano, un’altra foglia volata via dall’albero a colori, e ormai semispoglio, della mia vita. Tu, nove anni dopo quell’altro apostolo dei sogni a due ruote, quel Denis Hopper che, nel film che ti ha reso celeberrimo, più ancora del tuo cognome, correva insieme a te in motocicletta nel sud californiano.
Peter Fonda e Denis Hopper in Easy Rider, tu con la bandiera americana cucita, da spalla a spalla, sul giubbotto di cuoio nero e lui con le frange della giacca indiana che fluttuavano nel vento caldo della libertà. Il tuo film per eccellenza, manifesto e ritratto dell’epoca hippy, è ancora vivo nella nostra memoria collettiva.
Easy Rider è anche un dvd nella mia libreria e quest’anno il cineclub della mia piccola città, approfittando del recente restauro e della magnificenza della digitalizzazione in 4k, l’ha riproposto come pagina di apertura della nuova rassegna cinematografica.
Non potevo certo mancare né adesso, che calpesto ancora questo pianeta, né tantomeno mezzo secolo fa, quando l’ho visto per la prima volta proprio in questo stesso cinema. Ricordo che, quel giorno, giovane ventenne sognatore, ero uscito dalla sala con il luccichio delle lunghe forcelle della tua motocicletta negli occhi e un sapore di libertà soffocata nella gola. Nel tuo film aveva trovato diritto di cittadinanza il mio spirito ribelle, una specie di legittimazione a una nuova forma di pacifico anticonformismo, colorato di abiti fantasiosi e stravaganti, ricco di aneliti giovanili che non volevano sottomettersi ai modelli sociali imperanti, precostituiti e bigotti.
Infatti a noi, come a te Peter, interessava la libertà, quella condizione così esclusiva e forse irraggiungibile come un’utopia, che permetteva di pensare e vivere controcorrente rifiutando le convenzioni e le regole del “sistema”. Un’equazione che prevedeva meno soldi in tasca, ma più tempo libero a disposizione. Meno industria e beni di consumo e più aria da motocicletta nei capelli.
Caro Peter, come ti ho detto, allora ero anche uscito dal cinema con quel senso di impotenza che la fine tragica del film comunicava. La libertà era un desiderio che finiva nella morte, un sogno stroncato, effetto di un mondo ostile e fatalmente arroccato nei pregiudizi della vecchiaia. La nostra gioventù spingeva, invece, sull’acceleratore del cambiamento anche se “Parlare di libertà non significava essere liberi” come ricordava, con sagace premonizione, proprio Jack Nicholson nel film.
E tu “Capitan America” eri empatico con lui, avevi capito al volo il senso di quelle parole e tutte le difficoltà di quel sogno ad occhi aperti chiamato libertà. Tu, con il tuo compagno Billy, serpeggiavi, più riflessivo, con la moto sulle strade scottate dal sole, dentro paesaggi solitari, inseguendo la corsa del vento.
Due motociclette iconiche a zig zag sull’asfalto, un orologio da polso scagliato nella polvere come ad uccidere il tempo, il viaggio verso la libertà che incontra il prezzo dell’incomprensione e della morte perché un uomo libero fa paura soprattutto a chi libero non è né tantomeno vuole diventarlo.
Caro Peter tu sei stato un esempio di ribellione, tu che facevi il bagno nudo insieme a Billy e alle ragazze della comunità hippy in un’epoca in cui la stessa nudità urlava il suo diritto di esistere superando le rigide barriere dell’ipocrisia, una vera sfida per quei tempi ancora fortemente ostaggio di un’antiquata morale.
E pensare che nel tuo film la nudità delle ragazze era più che altro accennata, senza sfidare apertamente la censura perché forti erano ancora i vincoli e i tabù in vigore anche nel mondo del cinema. Lasciando intuire, più che facendo vedere, Easy Rider è stato un film di rottura, diventando un “cult” e smentendo clamorosamente tuo padre che non credeva nel suo successo.
Spinelli, marijuana, LSD erano atti rivoluzionari sganciati da ogni rischio di deriva o assuefazione, ben lungi dalla realtà dell’oggi. La droga appariva soltanto come un’ulteriore strategia di sfida e provocazione, un’esplorazione della coscienza e anche un’esperienza culturale alla ricerca di possibili alternative esistenziali. Soltanto più tardi abbiamo capito che per molti di noi non è stato così.
A me della droga non importava nulla, qualche spinello e niente di più. Dall’ LSD mi sono sempre tenuto lontano soprattutto dopo aver saputo che qualcuno, credendo di poter volare sul serio, si era buttato dalla finestra. Ma l’idea della libertà, quella sì, la coltivavo da sempre. La libertà era la mia aspirazione a cui tu, Capitan America, hai messo simbolicamente le ali ed io, che ero soltanto un hippy della domenica, feticista dei capelli lunghi, il tuo Easy Rider l’ho adorato nell’anima e con la pelle.
L’ho condiviso come se fossi là con voi, nel sole della West Coast, nelle strade eccitanti del carnevale di New Orleans, nelle visioni psichedeliche dell’acido che vi siete fatti tu e Billy insieme a quelle due meravigliose prostitute nel cimitero ingrigito di lapidi e tombe.
Anch’io, al posto di Denis Hopper “Billy”, avrei scelto quella stangona, alta e bionda, di Karin Black, così sexy e scosciata, nelle sue calze a rete che cinquant’anni fa avevano innescato brividi erotici nel mio immaginario post adolescenziale e che, oggi, causano ancora il piacere rigenerante, sensuale ed insieme senile, dello sguardo.
Sai Peter, uno dei miei amici, qualche anno fa, mi ha detto che, rivedendo Easy Rider, l’aveva trovato superato e forse lontano dai palpiti suscitati originariamente. Gli ho pacatamente risposto che gli occhi dell’oggi non devono rapportarsi al passato, ma agli occhi del passato.
Easy Rider è lo specchio di come eravamo, gente come noi che vedeva in una motocicletta il canto a due ruote del viaggio in libertà.
Il nostro vissuto e la nostra diversità sono passati di lì e anch’io, in una fase di quegli anni, mi sono appropriato di una giacca da pellerossa e ho calzato stivali spagnoli. E quella motocicletta, il chopper dal serbatoio dipinto a lingue fiammeggianti, il manubrio rialzato e le forcelle allungate è l’unico cavallo di ferro che mi sia sempre piaciuto, un viaggio capace di assurgere a mito e ancora oggi di rappresentare uno stile di vita.
Caro Peter, cinquant’anni fa la sala del Boaro, così si chiama il nostro piccolo cinema di provincia italiana, era piena di giovani, mentre oggi i tuoi fans sono più vecchi di quella generazione a cui tu, Billy e il grande Jack facevate paura. Oggi il pubblico, che guarda il film, è dalla vostra parte a dimostrazione che qualcosa è cambiato.
Siamo qui con i capelli bianchi a rendere omaggio, raccolti in platea nella dolcezza declinante della vecchiaia. E fuori le strade della nostra piccola provincia e quelle infinite della grande America sembrano accomunarsi nel tuo spirito vagabondo. I film e i miti contengono un pezzo di immortalità e il tempo trascorso rende finalmente un po’ di giustizia all’importanza del loro significato.
“Don’ t forget the joint my friend e buon viaggio”.
Pierangelo Scala