L’alternanza scuola-lavoro – oggi PCTO – rende i giovani più obbedienti e meno liberi di scegliere
La parola scuola viene da skholé: ozio.
E in ozio, cioè a speculare, imparare a pensare autonomamente, riflettere, leggere, dibattere, domandarsi, avrebbe dovuto essere Lorenzo, il ragazzo di Udine morto a 18 anni.
Invece era impegnato in uno “stage”. Lavoro non retribuito.
Inserita nella riforma renziana come “Alternanza scuola-lavoro”, la norma ha poi subìto nel 2019 la sorte che tocca in Italia alle baggianate: cambiare nome.
Siccome “Alternanza scuola-lavoro” suona male – uno potrebbe eccepire che a scuola si studia e si impara a studiare, roba vetusta così – allora si acronimizza, decisamente meno impegnativo “PCTO: Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento” (la “trasversalità” va con tutto).
Il dimezzamento delle ore – comunque obbligatorie per accedere all’esame di Stato – rispondeva poi alla difficoltà, da un lato di infilarci un po’ di studio dentro quel lavoro, dall’altro di trovare aziende, imprese, uffici, supermercati, ristoranti pronti a trovare una collocazione a richiesta, per esempio in zone depresse come la nostra.
Anche così però, con il numero di ore ridotto, ci sono docenti – un tempo impegnati a insegnare – che supplicano (letteralmente e per ore al telefono che nemmeno il telemarketing) una collocazione purchessia ai propri allievi-lavoranti: “è un bravo ragazzo, non darà fastidio, sa stare al suo posto ed esegue gli ordini senza un fiato”.
Ci sono studenti di istituti turistici che vengono distratti dallo studio per fare i camerieri gratis et amore dei, sottraendo a un tempo skholé a sé stessi e ai diplomati un lavoro in qualche modo retribuito.
Ce ne sono altri che diventano gran mogol delle fotocopie e dei cappuccini ancora caldi.
Giovani ragazzi di bell’aspetto gratuitamente si abituano a vendere case per una paga che poi non basterà per giacca e cravatta obbligatorie.
E provate a chiedere alla guida turistica, quella tanto colta e gentile, quanto la pagano, se la pagano, se può permettersi di contestare orario e mansioni, se ha tempo per leggere quel libro che sta da mesi sul comodino, se le insegnano anche a non ribellarsi alle avances dei clienti. Se è felice di ciò che fa.
Esistono i professionali, naturalmente, per chi non prevede di continuare a studiare. A maggior ragione: per quei ragazzi la scuola è forse l’ultima occasione di imparare a leggere e porsi domande sulla complessità del mondo. Magari perfino cambiare prospettive.
Ci sono presidi vanesi che vantano in pubblico la piena occupazione dei loro studenti neodiplomati: occupazione retribuita con un “rimborso spese” in luogo del salario, priva di diritti, precaria, a progetto, a chiamata, in finto part time, in somministrazione, accessoria, in apprendistato (ancora!).
Si dice che qualcuno impari a lavorare, con il PCTO, e che poi lo trovi davvero un lavoro decente.
E non lo troverebbe altrimenti? Se potesse studiare il tempo per capire chi è da dove viene che cosa vuole (e, chissà, scoprire nuove inclinazioni e strade diverse da quelle attese), non sarebbe più umana la vita? Se almeno smettessimo di correre incontro al futuro togliendo senso al qui e ora? Se la scuola tornasse a essere quell’otium che pensavamo ipotizzando tempi distesi e il dialogo socratico come strumento di comprensione e cambiamento?
Non è ingiusto dire a un ragazzo “se devi lavorare lavora allora, comincia subito, corri incontro al futuro che è stato pensato per te!”?
La morte assurda di Lorenzo sarà presto dimenticata, lo è già, e le scuole torneranno senza pudore a occupare altrove i propri studenti.
Il ministro Bianchi ha aggiustato e chiuso la faccenda da par suo con il vuoto che gli è caro: “Incidenti come questo sono inaccettabili, come inaccettabile è ogni morte sul lavoro”.
Non si discuterà nemmeno di PCTO, perché da decenni di nulla che abbia sostanza si discute, a scuola e nel Paese.
D’altronde, sta scritto su pcto.it che “tramite questi percorsi formativi gli studenti acquisiscono quelle soft skills, o competenze relazionali, necessarie per imparare a progettare il proprio futuro”.
Soft skills e futuro: un mantra.
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